Un tram chiamato Desiderio – Tennessee Williams

Streetcar is a cry of pain; forgetting that is to forget the play.

Arthur Miller

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Il percorso che Blanche DuBois compie sul tram che si chiama Desire per giungere a casa della sorella non è emozionante, ma la casa che l’accoglie lo è ancora meno. Ai suoi occhi stupiti, alla sua mente malata e in cerca di iperboliche sensazioni, appare lo squallore come capolinea e destinazione finale. La bugia e il buio diventano allora zone vitali in cui rifugiarsi.

Quando uscì, l’opera ricevette molte critiche: il sesso era ovunque, nelle magliette sudate o nel torso nudo di Stanley, nei ceffoni tirati alla moglie, nella civetteria languida degli abiti svolazzanti, nel gioco di ombre cinesi con spoglierelli da una stanza all’altra. D’altronde si criticava anche la dimensione sognante del testo, che ne metteva in ombra il dramma sociale. La giornalista Mary McCarthy scrisse che il lavoro assomigliava a una “soap opera mancata sui litigi per monopolizzare il bagno”.
La figura di Stella non si discosta troppo dal generico modello di donna nel Sud del dopoguerra. Come Eunice, è consapevolmente sottomessa all’autorità del marito e vive di piccole, insignificanti reazioni, ma nel complesso la sua condizione è, secondo l’indicazione testuale dell’autore, di “quiete narcotica”. Sbriga raramente le faccende domestiche, guarda il marito dal balcone mentre va a divertirsi, lascia le stoviglie nel lavandino, si accontenta della paghetta che le dà il consorte e trascorre l’esistenza sotto l’ala protettrice dell’amato. Ma questo non è tutto; la sua vita non è affatto la necessaria conseguenza di un carattere remissivo, al contrario è l’esito di una precisa rinuncia al proprio mondo interiore, lo stesso al quale Blanche si aggrappa con tutte le sue forze. L’esito di questa contraddizione è l’emergere sporadico di una vitalità inattesa, che, per esempio durante il ricongiungimento tra marito e moglie ai piedi della scala, prende le forme di un disinibito abbandono sensuale. Lì, da vittima Stella diviene padrona della situazione; i suoi movimenti si fanno lenti perché allusivi, avanza colma di una libidine controllata. Sopraffatto dalla vergogna di sé e travolto dal dispiego di sentimenti, Stanley piega le ginocchia e china il capo in segno di pentimento. L’abbraccio che corona la riconciliazione tra i due non ha più la tenerezza sognante degli abbracci di Blanche, è piuttosto il famelico appagarsi di un’attrazione carnale.

Se la forza di questa scena è ancor oggi indiscutibile, possiamo immaginare che cosa volesse dire all’alba degli anni Cinquanta, in pieno puritanesimo del maccartismo, vedere un’affettuosa moglie rivalersi sulle violenze del marito usando la propria sensualità come strumento di sottomissione.
Comunque la grandezza della scrittura di Williams è anche il riuscire a farci arrivare, con pochissime parole, la frustrazione per una vita che Stella vuole credere perfetta, quando sa benissimo che non lo è. Basta, infatti, l’arrivo della sorella, che, al contrario di lei, non ha rinunciato alle illusioni della giovinezza, per incrinare, forse per sempre, il rapporto che la lega a Stanley. Blanche è una rivale, nella misura in cui incarna un’ideale poetico e letterario al quale lei ha voluto rinunciare per vivere una vita moderna. Il legame con Stanley è, allora, un baluardo contro la tentazione di riconoscere la propria sconfitta. Senza questo legame lei sarebbe come Blanche.

Una certa corrente di pensiero ha spesso sostenuto che “Un tram che si chiama desiderio” sia una tragedia sociale, un dramma dei tempi odierni, dove le aspirazioni, la sensibilità, il distacco dalla norma vengono nel mondo di oggi bastonati, ammaccati, screditati. Blanche diverrebbe, in questa visione, il simbolo di un anacronismo, una sopravvissuta del secolo XIX, incapace di adeguarsi alla modernità divampante.
Con i suoi abiti di seta vaporosi, i fronzoli delle gonne, i colletti coi volants Blanche cerca a tutti i costi di serbare una idea di femminilità aristocratica, che ha acquisito durante l’infanzia, ai tempi di Belle Rive.
I gesti eleganti, la delicata affettazione dei movimenti, sempre troppo ampi, esagerati, teatrali altro non sono che il lascito di una tradizione in frantumi, il residuo di una visione della femminilità come scrigno di purezza da proteggere, ormai indifendibile nel nuovo mondo edonistico e lascivo. Blanche è un’abile conversatrice, possiede uno spirito vivace e arguto ed è dedita a fantasie di bellezza dal sapore fanciullesco. Le lettere del marito defunto sono per lei “yellowing with antiquity” e vorrebbe bruciarle dopo che Stanley le ha toccate, Mitch è un cavaliere al quale chiedere l’inchino, la Luna un volto da salutare nella folla di stelle; sul molo basta un tavolino e una candela per farle respirare l’aria di un café de Paris e sul finale, appena prima dello stupro, quando la realtà ha ormai infranto ogni suo desiderio, un diadema e una musica che suona solo nella sua mente sono sufficienti per inscenare un solitario gran ballo secondo la moda Ottocentesca.
Non è difficile capire il contrasto con Stanley, il cui universo pratico è ristretto alla conquista di un piacere fisico immediato; per lui i sogni di Blanche sono il sintomo di un animo fasullo e la sua condotta il riflesso di un insopportabile senso di superiorità. Il loro incontro è la cronaca di una tragedia annunciata: si guardano, si riconoscono in un istante per quello che sono, si capiscono al volo in un’occhiata.

Blanche è attratta da Stanley, anche se sa che ciò che la distruggerà. Pur sapendo che la reazione di Stanley sarà violenta, non esita ad accendere la radio disturbando la partita a poker, a provocarlo con i riferimenti alla sua grossolanità, nonché a stuzzicare il suo lato lascivo con continue seduzioni. Sul finale, poi, è lei stessa a precludersi ogni via d’uscita. Perché tutto questo?
Forse perchè come tutti quelli che vivono di disperate passioni, deve continuare a recitare la parte che ha scelto per se stessa, e la tensione di morte che permea ormai da anni la propria esistenza, dal suicidio del marito, deve trovare alla fine uno sbocco.

Lorenza Inquisition

 

 

Samuel Beckett – Aspettando Godot

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Non l’ho capito tanto. E poi non sarei mai così audace da recensire Beckett.
Mi è rimasta solo una frase:
“Troviamo sempre qualcosa per darci l’impressione di esistere”, lo domanda Vladimiro a Estragone. Non avrò capito molto, ma questa attesa frustrata da riempire, in cui le giornate procedono tutte uguali una come l’altra, in cui ci dimentichiamo del tempo che passa per non pensare al l’angoscia del tempo passato senza aver vissuto la propria vita, fa tanto Dino Buzzati.

Stefano L.

“Non c’è da meravigliarsi che, uscendo dal teatro, la gente si chieda cosa diavolo ha visto. In casi come questo si finisce sempre per attribuire all’autore un preciso disegno simbolico, e si rigira il testo pezzo per pezzo, battuta per battuta, cercando di ricostruire il puzzle. Si ha l’impressione che Beckett, a casa sua, stia ridendo malignamente alle nostre spalle, mentre con una semplice intervista alla televisione potrebbe chiarire ogni cosa. Diremmo subito che, a nostro parere, pretendere a tutti i costi questo “sesamo apriti” non ha senso. Stabilire se Godot è Dio, la Felicità, o altro, ha poca importanza; vedere se in Vladimiro ed Estragone la piccola borghesia che se ne lava le mani, mentre Pozzo, il capitalista, sfrutta bestialmente Lucky, il proletariato, è perfettamente legittimo, ma altrettanto legittima è la “chiave” cristiana, per cui tutto, dall’albero che si trova sulla scena, e che dovrebbe rappresentare la Croce, alla barba bianca di Godot, si può spiegare Vangelo alla mano”. (Carlo Fruttero)