Il fondamentalista riluttante – Mohsin Hamid #mohsinhamid #recensione

“Trascorsi quella notte a riflettere su ciò che ero diventato. Non c’erano dubbi: ero un moderno giannizzero, un servitore dell’impero amiericano in un momento in cui stava invadendo un paese consanguineo al mio, e forse stava addirittura complottando perché anche il mio si trovasse di fronte alla minaccia della guerra. Era ovvio che fossi in difficoltà! Era ovvio che mi sentissi combattuto!”.

Il fondamentalista riluttante – Mohsin Hamid

Einaudi, Collana Super ET 

Traduzione di Norman Gobetti

La struttura narrativa di questo libro è di quelle che, una volta iniziato, non ti permette più di fare altro…perché la voce narrante ti sta parlando, sì, ce l’ha proprio con te e ti si rivolge con così tanto garbo e cortesia che distogliere l’attenzione da lui risulterebbe una grandissima forma di maleducazione.
In realtà il narratore, un pakistano che ha studiato e lavorato in America, si rivolge ad un interlocutore di cui sappiamo molto poco e di cui non ci è dato conoscere le parole che dice (pochissime), sappiamo solo che è americano e che si trova in Pakistan per imprecisati motivi.
Inizia così un dialogo ad una sola voce (mi ha ricordato un po’ “Le Braci” di Marai) dove il nostro Changez si avvicina all’americano e inizia a raccontargli la sua storia…

È la storia di un sentimento ambivalente tra oriente e occidente, di un ragazzo pakistano che proprio quando credeva di aver trovato la sua strada in America, dopo aver conseguito una laurea con lode a Princeton, aver iniziato a lavorare ad alti livelli nel mondo della finanza e trovato l’amore in una ragazza dal passato ingombrante, si ritrova perduto, spaesato, tranciato a metà proprio come le Torri Gemelle in quel maledetto 11 Settembre che segna l’inizio della fine.
Si ritrova ad essere un moderno servitore dell’impero americano in un momento storico che lo fa sentire “straniero indesiderato”, e il richiamo delle radici non tarda a farsi sentire.
Non riesce più a credere in quel Paese meritocratico che l’aveva accolto e che ora cerca solo di affermare la propria supremazia e cercare la sua vendetta.
Anche Erika, persa nel ricordo del suo ex ormai morto, lo esclude dalla sua vita rinchiudendosi in un passato a cui lui non ha accesso, nonostante innumerevoli tentativi di entrarvi…anche fingendo di essere chi non è, rinnegando la propria identità.
Changez non sarà mai “americano”, così come non sarà mai il fidanzato fantasma di Erika…sarà sempre e solo un pakistano, scuro, con la barba sospetta, un possibile terrorista, un fondamentalista riluttante.

Pagine molto intense in cui troviamo uno sguardo “antiamericano” attraverso gli occhi di un integrato che ama l’America, ma da cui non si sente riamato.
La scrittura è raffinata, intelligente, capace di creare una suspance che ti avvince e in perfetto equilibrio tra storia politica e storia d’amore.
Il finale è una stilettata altamente simbolica, da interpretare.

“Si, le mie considerazioni erano davvero cupe. Riflettevo su quanto mi avesse sempre urtato il modo in cui gli Stati Uniti si comportano nel mondo; la continua intromissione del vostro paese negli affari degli altri è insopportabile. Vietnam, Corea, Taiwan, il Medio Oriente, e adesso l’Afghanistan: in ognuno dei grossi conflitti e delle prove di forza che hanno dilaniato l’Asia, il mio continente natale, gli Stati Uniti hanno giocato un ruolo centrale. Inoltre sapevo dalla mia esperienza in Pakistan, dove gli Stati Uniti alternano aiuti e sanzioni, che la finanza è il principale strumento attraverso cui l’impero americano esercita il proprio potere. Non potevo continuare a collaborare a tale progetto di dominio; mi meravigliavo solo di aver impiegato tanto tempo per giungere a quella decisione.”

Unico neo, per me, un “sorriso” del protagonista (chi ha letto lo sa) che non ho compreso, non sono riuscita a decifrare e che non ho ben digerito.

Antonella Russi

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Exit West – Mohsin Hamid #ExitWest #MohsinHamid #recensione

Exit West -Mohsin Hamid

Traduttore: N. Gobetti
Editore: Einaudi
Collana: Supercoralli
Anno edizione: 2017

“In tutto il mondo la gente fuggiva da dove si trovava, da pianure un tempo fertili e ora screpolate dalla siccità, da villaggi costieri minacciati dagli tsunami, da città sovraffollate e campi di battaglia insanguinati, e fuggiva anche da altre persone, persone che in alcuni casi aveva amato.”

No non è l’incipit de La Torre Nera, ma Exit West di Hamid.
C’è chi ha scritto che il ventunesimo secolo sarà ricordato come il secolo delle migrazioni: Hamid usa la migrazione come pretesto per parlare della vita, di come si aggrovigli intorno alle scelte che prendiamo, svuotandole delle intenzioni originarie e trascinandoci per miliardi di altre direzioni. È un romanzo sul crescere e sull’abbandonare, laddove come ha scritto Ester Armanino “crescere è abbandonare”: abbandonare i tuoi genitori, il tuo paese e i tuoi amici; ma anche abbandonare la tua identità, perché quando comincerai a migrare non sarai più Saed o Nadia, sarai un migrante, abbandonare il tuo stile di vita, abbandonare il tuo stile di vita, la doccia, abbandonare la protezione dello stato di diritto. E parallelamente alla migrazione come presa di congedo dalla propria vita quotidiana, Hamid descrive anche il secolo delle migrazioni come l’epoca della solitudine di Eros: si prende congedo dal proprio mondo come si prende congedo dalle relazioni e dall’amore. Saed e Nadia incarnano l’ideale dell’amore ai tempi del nichilismo. Cominciano a capire questa nuova forma di vivere le relazioni all’inizio del romanzo quando abbandonano il padre di Saed: “quando emigriamo assassiniamo coloro che ci lasciamo alle spalle” involontariamente forse, ma ciò non toglie il raffreddarsi e l’indurirsi dei propri sentimenti che altrimenti risulterebbero intollerabili. Fra di loro poi Saed e Nadia vivono questo raffreddamento gradualmente, lasciandosi andare un pezzo alla volta, finché non resta che separarsi e imparare a vivere senza l’altro che fino a poco prima rappresentava l’unico sostengo durante l’esilio.
Forse però non tutte le relazioni sono fatte per raffreddarsi e destinarci alla solitudine: ho trovato poetica e molto ottimista la parte in cui descrive i due vecchietti, di Amsterdam e di Rio de Janeiro, che per caso si incontrano attraverso uno dei portali magici che collega i continenti, e che si innamorano alla fine della loro vita.
Forse questo libro ha molto di più dentro di sè di quanto ho saputo descrivere, per questo l’autore usa la metafora delle porte, credo, nel libro: ognuno può, leggendolo, sbucare fuori a un’uscita inaspettata e che apre su una nuova prospettiva ancora da scoprire.

Stefano Lillium

DESCRIZIONE

«In una città traboccante di rifugiati ma ancora perlopiù in pace, o almeno non del tutto in guerra, un giovane uomo incontrò una giovane donna in un’aula scolastica e non le parlò». Saeed è timido e un po’ goffo con le ragazze: cosí, per quanto sia attratto dalla sensuale e indipendente Nadia, ci metterà qualche giorno per trovare il coraggio di rivolgerle la parola. Ma la guerra che sta distruggendo la loro città, strada dopo strada, vita dopo vita, accelera il loro cauto avvicinarsi e, all’infiammarsi degli scontri, Nadia e Saeed si scopriranno innamorati. Quando tra posti di blocco, rastrellamenti, lanci di mortai, sparatorie, la morte appare l’unico orizzonte possibile, inizia a girare una strana voce: esistono delle porte misteriose che se attraversate, pagando e a rischio della vita, trasportano istantaneamente da un’altra parte. Inizia così il viaggio di Nadia e Saeed, il loro tentativo di sopravvivere in un mondo che li vuole morti, di restare umani in un tempo che li vuole ridurre a problema da risolvere, di restare uniti quando ogni cosa viene strappata via. Con la stessa naturalezza dello zoom di una mappa computerizzata, Mohsin Hamid sa farci vedere il quadro globale dei cambiamenti planetari che stiamo vivendo e allo stesso tempo stringere sul dettaglio sfuggente e delicato delle vite degli uomini per raccontare la fragile tenerezza di un amore giovane