Un sacchetto di biglie – Joseph Joffo #JosephJoffo #Olocausto #Rizzoli

“Guardo mio figlio come mi guardava, trentanni fa, mio padre e mi viene una domanda, idiota forse, come tante domande. Perché ho scritto questo libro?Certo, è una domanda che avrei dovuto farmi prima di incominciare, sarebbe stato più logico ma le cose non avvengono spesso logicamente, mi è uscito come una cosa naturale, mi era forse necessario. Mi dico che lo leggerà più tardi e questo mi basta. Lo respingerà, lo considererà un insieme di ricordi stantii o, al contrario, ci rifletterà, adesso tocca a lui giocare questo gioco. In ogni caso, immagino di dovergli dire stasera, all’ora in cui entrerà nella sua camera a fianco della mia, “Bambino mio, prendi la tua sacca e 50.000 franchi e parti.” A me è successo, è successo a mio padre e mi invade una gioia senza limiti a pensare che a lui non succede.”

La memoria è fragile. Nell’arco di una vita raccontarsi diventa un compito irrinunciabile per trovare un senso nel susseguirsi degli eventi. Joseph Joffo racconta la propria infanzia durante la seconda guerra mondiale: l’invasione nazista di Parigi, l’esodo lontano da casa col fratello Maurice, verso la Francia di Vichy, spostandosi di città in città per sfuggire alla Gestapo. Joffo narra esattamente come l’ha vissuta, come le pagine di un quaderno di un bambino: periodi semplici, essenziali. L’ influsso della guerra è evidenziato dal cambiamento di stile che si avverte di capitolo in capitolo: la fine dell’innocenza e l’inizio di una precoce vita adulta si riflettono in descrizioni più dense, flussi di coscienza improvvisi, che deviano il baricentro della narrazione verso l’angoscia della fuga, l’accettazione della morte, ma anche l’inaspettata misericordia quando il cacciatore si trasforma in preda. Ci sono pochi narratori in grado di accompagnarti per mano nei labirinti della memoria con la semplicità e la destrezza che ha avuto Joseph Joffo.

“Joseph è un bambino, ha quasi dieci anni, è ebreo, e vive nella Parigi del 1941 con la sua numerosa famiglia. Lui e il fratello Maurice sono i più piccoli, vanno ancora a scuola e amano giocare indisturbati a biglie per strada. Ma insospettabilmente la loro vita inizia a complicarsi: prima le SS che diventano sempre più aggressive e la mamma che cuce sulle loro giacche una stella gialla; poi gli insegnanti che in classe iniziano a ignorarli e i compagni che li insultano fino ad arrivare alle mani. Per la famiglia Joffo c’è solo una cosa da fare: fuggire verso la Francia libera di Pétain uno dopo l’altro, prima i fratelli grandi, poi i piccoli, infine i genitori. Inizia così per Joseph e Maurice una grande avventura verso la salvezza, un viaggio pieno di speranza ma anche di pericoli, paure, solitudine e crudeltà. Un libro in cui un mondo pieno d’odio viene descritto senza traccia d’odio, ma con uno stupore tutto infantile.”

Stefano Lilliu

Traduttore: Marina Valente Illustratore: Giovanni Scarduelli

Editore: BUR Biblioteca Univ. Rizzoli Collana: Contemporanea

Il pane perduto – Edith Bruck #EdithBruck #NavediTeseo

Per non dimenticare e per non far dimenticare, Edith Bruck, a sessant’anni dal suo primo libro, sorvola sulle ali della memoria eterna i propri passi, scalza e felice con poco come durante l’infanzia, con zoccoli di legno per le quattro stagioni, sul suolo della Polonia di Auschwitz e nella Germania seminata di campi di concentramento. Miracolosamente sopravvissuta con il sostegno della sorella più grande Judit, ricomincia l’odissea. Il tentativo di vivere, ma dove, come, con chi? Dietro di sé vite bruciate, comprese quelle dei genitori, davanti a sé macerie reali ed emotive. Il mondo le appare estraneo, l’accoglienza e l’ascolto pari a zero, e decide di fuggire verso un altrove. Che fare con la propria salvezza? Bruck racconta la sensazione di estraneità rispetto ai suoi stessi familiari che non hanno fatto esperienza del lager, il tentativo di insediarsi in Israele e lì di inventarsi una vita tutta nuova, le fughe, le tournée in giro per l’Europa al seguito di un corpo di ballo composto di esuli, l’approdo in Italia e la direzione di un centro estetico frequentato dalla “Roma bene” degli anni Cinquanta, infine l’incontro fondamentale con il compagno di una vita, il poeta e regista Nelo Risi, un sodalizio artistico e sentimentale che durerà oltre sessant’anni. Fino a giungere all’oggi, a una serie di riflessioni preziosissime sui pericoli dell’attuale ondata xenofoba, e a una spiazzante lettera finale a Dio.

“…il tempo reale, come la mia infanzia, era sparito […]Io volevo tornare nella pancia della mamma e non nascere mai più.”

“Ci sentivamo rinate, libere e disperse nel mondo dei vivi.” Bastano queste tre sole frasi a racchiudere tutto il senso di questo libro. Il senso d’irrealtà che poteva provare una bambina improvvisamente catapultata in una dimensione fuori dal tempo, incapace di dare senso ad un qualcosa che non rientrava più nel concetto di umano. Lo strazio di dover affrontare tutto l’orrore senza la mano rassicurante della mamma, diventata fumo a pochi metri da lei… La madre che, ad un passo dalla fine, non riusciva a non pensare al pane lasciato a lievitare, quel piccolissimo lusso che non hanno neanche fatto in tempo a cuocere e mangiare, il pane perduto appunto… Pane simbolo di casa, famiglia, unione. Pane come festa, gioia, sicurezza. Auschwitz, Bergen Belsen. La fame, la paura, l’Inferno.

E poi lo smarrimento di chi, sopravvissuto, non riesce più a ritrovare il mondo che ha lasciato, di chi si sente estraneo in ogni luogo, senza più casa, né radici, senza nessuno veramente disposto ad ascoltare, a capire. Disperso nel mondo dei vivi. Forse l’essere umano non è in grado di reggere il peso delle parole di chi ha vissuto l’inferno dei campi di concentramento, la carta invece sopporta tutto. Ecco perché Edith ha iniziato a scrivere. Ma come si fa a sopravvivere, dopo? Come si fa a ritrovare il proprio centro, la propria direzione? Come si fa a non odiare? Come si fa a non chiedere spiegazioni a quel Dio tanto inutilmente invocato? Le parole di Edith Bruck, che a 89 anni non vuole smettere di ricordare e ricordarci, sono parole preziose, parole incredibilmente prive di odio, che risuonano nella testa, nella pancia e nel cuore, ancora e ancora. Perché fa sempre male, ogni volta con una consapevolezza maggiore. Ogni volta un tassello in più. Non ci si abitua mai al Male. Per fortuna.

“Ti prego, per la prima volta ti chiedo qualcosa: la memoria, che è il mio pane quotidiano, per me infedele fedele, non lasciarmi nel buio.”

Antonella Russi

Editore: La nave di Teseo Collana: Oceani Anno edizione: 2021