L’uomo che ride – Victor Hugo #victorhugo

“Egli era l’Uomo che Ride, la cariatide di un mondo in lacrime. Egli era l’angoscia pietrificata in ilarità, sosteneva il peso di un universo di disgrazie, ma era murato per sempre nella giovialità, nell’ironia, nel divertimento altrui; egli condivideva con tutti gli oppressi, di cui era l’incarnazione, l’atroce destino di una desolazione non presa sul serio; si scherzava con la sua miseria; era una specie di grande pagliaccio generato da uno spaventoso concentrato di sventure, un evaso dal bagno penale, divenuto Dio, salito alle profondità del popolino fino ai piedi del trono”.

Un romanzo di non facile lettura, un libro d’altro tempi che richiede al lettore un immenso sforzo e tanta pazienza per farsi strada tra i suoi infiniti monologhi, le continue digressioni, gli elenchi interminabili di principi e lord, i sermoni filosofici, le descrizioni lunghissime e apparentemente non necessarie…
Un tipo di narrazione lontana dalla struttura narrativa moderna ma con un indiscutibile fascino.

Come in Notre Dame, anche qui abbiamo un uomo-mostro, questa volta per colpa dell’uomo e non della natura, e una donna bellissima.
Questa volta davvero anima e corpo, contenitore e contenuto differiscono: mentre Quasimodo viene descritto dallo stesso Hugo come brutto ma anche mancante di sentimenti nobili (anche se non per colpa sua), Gwynplaine, l’uomo che ride, nasconde dietro la smorfia orribile un animo superiore e puro. Un’anima bella nascosta in un corpo brutto o, meglio, abbruttito.
Un uomo che si rende conto delle ingiustizie sociali e che vorrebbe cambiare il mondo. “Chi siamo noi? Siamo ciò che appariamo o siamo ciò che trasmettiamo? La felicità si misura in proprietà o in principi? La grandezza dell’uomo è stabilita dai titoli nobiliari o dalle azioni che si compiono?”

“L’uomo che ride” è più cupo di “Notre Dame de Paris” e de “I Miserabili”, non c’è la speranza, non c’è redenzione. Mirabili giochi di specchi, veri manierismi cinquecenteschi, contrappongono un naufragio iniziale a un annegamento finale; poveri saltimbanchi con ricchi buffoni; una dea di fatto con una Dea di nome; la cecità dell’occhio e la cecità dell’anima; lo sproloquio con il silenzio; il labirinto di una prigione con i meandri della pianta di un palazzo principesco; la felicità che si manifesta nella lotta e nel disagio contro la disgrazia che giunge suadente come una carezza.

Anche Esmeralda e Dea differiscono di molto: Dea è colei che, pur cieca, vede davvero. Dea è la purezza, la donna angelicata e intoccabile, la quintessenza della bontà, dell’innocenza. I suoi occhi ciechi sono il simbolo di come un occhio che non vede sia l’unico capace di scrutare oltre le apparenze e amare colui che tutti definiscono “mostro”, ma che è tale solo esteticamente.  Esmeralda, invece, muore senza essersi resa pienamente conto di quanto il suo giudizio fosse errato. Una ragazzina che manca di coscienza e che tale rimane fino alla fine.

In entrambi i romanzi c’è anche una storia d’amore dal finale tragico. Ma questa volta il lettore sa che i due amanti non sono di questo mondo e percepisce come giusto il loro andarsene.

Cecilia Didone

Ps. Daniela Gaggioli: Io me lo ricordo come il più scorrevole dei tre suoi che ho letto 😄 (Notre Dame, I Miserabili e L’uomo che ride), credo che la digressione che sfocia in pippone sia proprio una caratteristica di Hugo!

 

Strane creature – Tracy Chevalier #recensione #TracyChevalier

 

Strane creature – Tracy Chevalier

Traduttore: M. Ortelio

Editore: Neri Pozza

Collana: I narratori delle tavole

Strane creature è un romanzo storico incentrato sulla figura di due donne britanniche realmente esistite, Mary Anning, antesignana della ricerca paleontologica, scopritrice dei primi scheletri completi di plesiosauro ed ittiosauro, e autrice di molti importanti ritrovamenti nel campo dei fossili marini dell’epoca giurassica, ed Elizabeth Philpot, anch’essa collezionista e ricercatrice di fossili. Le due signore, pur provenienti da diversi ambienti sociali e fortune (la Anning era di famiglia povera, non istruita e ricercava i fossili sostanzialmente per rivenderli ai collezionisti e guadagnarci, la Philpot era una signora di pochi mezzi ma di classe sociale elevata e persona molto colta), divennero col tempo amiche, stabilendo un sodalizio di studio della paleontologia che durò per tutte le loro vite. Vivevano nella stessa cittadina del Dorset, Lyme Regis, famosissima per i ritrovamenti fossili, commercialmente nota come la Costa Giurassica dell’Inghilterra per l’importanza geologica e paleontologica dei reperti. Le due amiche condussero un’esistenza reclusa, interessante da un punto di vista didattico ma povero di altre soddisfazioni: erano entrambe poco avvenenti e senza dote, non si sposarono mai, ed ebbero pochissimi riconoscimenti professionali: per la posizione delle donne all’epoca, non era loro concessa ammissione ad alcun circolo o associazione scientifica, nè potevano pubblicare i loro scritti su riviste del settore.

Tracy Chevalier decide di raccontarne le vite romanzando un poco le vicende, aggiungendo un amoreggiamento qui e una gelosia là, sostanzialmente cercando di ravvivare sulla carta quella che nella realtà è stata, a quanto pare, una serie ininterrotta di giornate in spiaggia a scavare nella fanghiglia tra il puzzo delle alghe morte, e lo scrostare giorno dopo giorno dopo giorno la salsedine dai reperti e dalle proprie unghie e vesti. Lo dice lei stessa nella postfazione, Mary Anning passò tutta la vita ora dopo ora, anno dopo anno, a fare sempre le stesse cose, negli stessi posti, e a volte quello che ci aspettiamo da una storia non è proprio quello che è successo nella realtà; e per carità. Ma se già lo sai che la storia sarà noiosa, devi proprio essere bravabrava a scriverla, cara la mia autorra. Soprattutto, devi un poco deciderti, o scrivi un romanzo, o una biografia. Qui secondo me manca un po’ tutto, personaggi piatti e descritti male, osservazioni scientifiche lasciate da parte per superficiali voli di trama, avvicendamento della storia inesistente. La scrittura soprattutto, secondo me, poco felice: le due protagoniste vengono fatte parlare a turno, alternandosi nei capitoli; ma la Chevalier non è così brava da differenziarne le voci in modo sostanziale, anzi spesso a metà capitolo dovevo concentrarmi per capire chi stesse parlando. Ammetto che possa essere un problema di traduzione, forse la sfumatura dialettale della Anning in lingua originale risalta meglio; ma il libro era in offerta in italiano e mi lamento di ciò che ho trovato.

La storia, comunque, mi è molto piaciuta: innanzitutto per le due figure protagoniste, giovani donne, anticonformiste e un po’ bizzarre, che con pochi mezzi e in fondo limitata cultura si impongono all’attenzione dell’universo scientifico maschile (aiutando anche alcuni eccellenti professori a costruire le loro carriere); e il racconto di una amicizia non sempre facile, nata e cresciuta tra qualche diffidenza e un po’ di gelosia e invidia, spesso condita da quella punta di acidità tipica delle zitelle che si rammaricano di essere tali, però fiorita in momenti di grande lealtà e sostegno, e in ogni caso utile, in un piccolo ma significativo ruolo, allo sviluppo della scienza moderna. E poi questo libro ha il pregio di portare alla luce un momento molto interessante e per nulla scontato dell’Ottocento, lo studio della generazione che precedette Darwin, che ancora doveva fare il suo viaggio e trarne le conclusioni sulla teoria dell’evoluzione. Il pensiero scientifico predominante era ancora il creazionismo; eppure persone che lavoravano e studiavano i fossili quotidianamente, in modo umile e senza troppe pretese intellettuali come le due amiche, cominciavano a questionare seriamente il senso di basare tutta la teoria scientifica delle loro scoperte sulla Bibbia. Non trovavano ancora risposte, nè potevano parlarne apertamente, pena l’essere bannate come dissidenti senza Dio; ma si ponevano domande, si allontanavano dalle prediche dei curati, sviluppavano un pensiero alternativo.

Questa è la vera parte interessante del libro, le riflessioni teologiche verso quelle scientifiche, lo studio attraverso gli anni di quelle strane creature le cui ossa apparivano sulle spiagge e che non trovavano senso nel mondo naturale, e le inevitabili conclusioni cui il rigore mentale degli studiosi di geologia e biologia alla fine arrivarono, dando il via al moderno pensiero scientifico.

Onestamente non so se consigliarlo; per lo stile, è senz’altro un due stelle. Per il tentativo di romanzare la vita di due scienziate ritagliando loro male addosso un certo pensiero austeniano, pure due. Ma la storia vera delle due protagoniste è rimarchevole, e lo stesso i loro studi e il loro lascito. Se lo trovate in offerta, e vi interessano i fossili e la teoria dell’evoluzione, forse potete buttarvi, è comunque una lettura poco impegnativa. Se no, forse vi conviene leggere Darwin. Io farò così, tanto per non sbagliare più.

 

Lorenza Inquisition