Il Negus splendori e miserie di un autocrate – Ryszard Kapuściński

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La seconda parte della vita di Haille Selassie e dell’Etiopia dal dopoguerra raccontata attraverso interviste dell’autore ad alcuni componenti del suo entourage.
A lui il merito di aver tentato di portare il suo paese fuori da una situazione di tremenda arretratezza. Circondandosi però da personaggi improbabili e pretendendo di avere il controllo di tutto . Di fatto poi corruzione, nepotismo e tutto il peggio del peggio era imperante e i risultati non sono arrivati.
Peccato che il libro parli solo dei suoi ultimi 20 anni del suo dominio, speravo negli inizi, nella lotta per l’ascesa al potere e degli anni dell’esilio.

raffaella giatti

Ras Tafari (1892-1975), ultimo imperatore d’Etiopia dal 1930 con il nome di Hailé Selassié I, viene deposto da un colpo di stato il 12 settembre 1974. Kapuscinski si reca ad Addis Abeba per capire cosa fosse davvero la monarchia assoluta del Negus, il Re dei Re, e perché sia caduta. Riesce a incontrare i rappresentanti dell’entourage imperiale e ne raccoglie i racconti, acuti, commossi, involontariamente umoristici. Intervista gli uomini che stavano a Palazzo o avevano avuto il diritto di accedervi, con la funzione di servitori, cortigiani, funzionari, spie, camerieri di ogni sorta, ma anche testimoni acuti e smaliziati di intrighi, lotte di potere e abiezioni. Ne esce un ritratto insolito del Negus, educato a Cambridge ma deciso a conservare il rituale di bacio al piede e genuflessione, promotore di riforme economiche, morali e sociali che però di fatto preservano l’arcaica sostanza del suo impero, preda di deliri di grandezza e progresso per cui sperpera denaro in un paese che muore di fame. Un vecchio rabbioso, onnipotente e superbo, ma anche terrorizzato dall’idea delle congiure, che si circonda di ministri inetti, in una società gerarchica, primitiva e corrotta. Un ritratto insolito del Negus. Una ricostruzione a più voci della vita di corte, dell’arte di governo e di una società, a metà tra l’analisi storica, il reportage e l’opera narrativa. Uno sguardo ironico e stupefatto sull’universo grottesco di ogni dispotismo.

Come cavalli che dormono in piedi – Paolo Rumiz #PaoloRumiz

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“… Rieccomi qui (Redipuglia), con un cuore nuovo e pienezza d’amore, rispetto e pietà, nel segno della nausea per un’inutile mattanza che sembra non aver insegnato nulla. “Ci vorrebbe una guerra” ho sentito dire davanti a un’edicola. Guerra follemente invocata come il vento, come pioggia purificatrice. Ho pensato: ecco come, in un mondo sbracato, nevrotico, obeso e senza più memoria, il legittimo bisogno di frugalità e di ordine può prendere una simile forma, blasfema e inaudita.”
Il libro: “Come cavalli che dormono in piedi” di Paolo Rumiz, che racconta degli italiani “Sbagliati” della Grande Guerra, i Triestini, Friulani, Dalmati, Trentini, che non per volontà loro, ma perché abitavano nell’Impero Asburgico combatterono la Grande Guerra con gli Austroungarici. Mio nonno era un “Italiano sbagliato”, partì nel ’14 e, fortunato, riuscì a tornare nel ’19.
Rumiz, è andato a cercare tracce di quegli “Italiani”, nei cimiteri di guerra di Polonia, Romania, Ucraina, nei Carpazi e con pietà e compassione, parla di tutti i morti, di questo e di quel fronte. Parla di ragazzi accomunati nella morte, da uno stesso destino. Nemici, perché qualcuno decise per “Loro”, che erano nemici.
Ho 72 anni (leggo ancora molto) e ho sentito i racconti di quelli che sono tornati, con grandi cicatrici nel corpo e nello spirito. Di quei “Ragazzi” rimane ormai solo la memoria e, come ricorda Rumiz: “Cerimonie retoriche, vuote di rispetto e di vuote parole”.
Anch’io sento spesso la frase: “Ci vorrebbe una guerra…” e ne sono spaventato.

Flavio Tomasi

Pochi giorni fa è stato l’anniversario della battaglia di Solferino – San Martino. Nel sacrario di Solferino è possibile vedere i nomi dei caduti di entrambe le parti. Parecchi cognomi (mi ricordo Basso) compaiono per entrambi gli schieramenti.

Descrizione:

Nell’agosto del 1914, più di centomila trentini e giuliani vanno a combattere per l’Impero austroungarico, di cui sono ancora sudditi. Muovono verso il fronte russo quando ancora ci si illude che “prima che le foglie cadano” il conflitto sarà finito. Invece non finisce. E quando come un’epidemia si propaga in tutta Europa, il fronte orientale scivola nell’oblio, schiacciato dall’epopea di Verdun e del Piave. Ma soprattutto sembra essere cassato, censurato dal presente e dal centenario della guerra mondiale, come se a quel fronte e a quei soldati fosse negato lo spessore monumentale della memoria. Paolo Rumiz comincia da lì, da quella rimozione e da un nonno in montura austroungarica. E da lì continua in forma di viaggio verso la Galizia, la terra di Bruno Schulz e Joseph Roth, mitica frontiera dell’Impero austroungarico, oggi compresa fra Polonia e Ucraina.
Alla celebrazione Rumiz contrappone l’evocazione di quelle figure ancestrali, in un’omerica discesa nell’Ade, con un rito che consuma libagioni e accende di piccole luci prati e foreste, e attende risposta e respira pietà – la compassione che lega finalmente in una sola voce il silenzio di Redipuglia ai bisbigli dei cimiteri galiziani coperti di mirtilli. L’Europa è lì, sembra suggerire l’autore, in quella riconciliazione con i morti che sono i veri vivi, gli unici depositari di senso di un’unione che già allora poteva nascere e oggi forse non è ancora cominciata.

“Come cavalli che dormono in piedi” di Paolo Rumiz è il racconto di una necessità. Il grande giornalista inquieto e itinerante parte in cerca dei suoi vecchi, in cerca di quelli che furono ragazzi e non tornarono a casa un secolo fa, di quelli che persero la vita nella Grande Guerra. Un viaggio nella nostalgia, un atto di amore per quei centomila soldati trentini e giuliani, tra cui suo nonno Ferruccio, che combatterono sul fronte russo per l`Impero austroungarico di cui erano allora sudditi. Rumiz viaggia le terre che ama, nelle atmosfere rese immortali da Joseph Roth.

Mario Calabresi, TuttoLibri – La Stampa

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