1984 – George Orwell #Orwell #1984

Quello che fa Orwell non è tanto inventare un futuro possibile ma incredibile, quanto analizzare un passato credibilissimo perché è già stato possibile.

Recensire un classico già è difficile, poi per un’opera del calibro e importanza di 1984 è veramente impossibile e forse anche inutile. Mi limiterò a riportare qualche riflessione che mi ha suscitato questa rilettura, avevo letto 1984 al Liceo trent’anni fa (e passa!) e mi ricordavo molto poco.

Penso che la prima cosa da dire sia che al pari di tanti altri classici, il primo aggettivo che viene in mente mentre lo si legge è Attuale, “come è attuale, questo libro” – si pensa, un po’ stupiti. E lo è. Non si è pronti a quanto sia contemporaneo perchè non si è preparati al potere del pensiero che esprime; soprattutto se lo si è già letto negli anni verdi della gioventù, si pensa un po’ di sapere già tutto quello che dice. E poi 1984 è un’iconografia pop ormai, è una serie di terminologie che usiamo abitualmente, è una serie infinita di derivati, spin-off e opere tratte da, e ispirate a; quindi quando lo si legge bisogna un po’ farsi strada tra tutti questi preconcetti per arrivare a farsi travolgere dal genio originale e grandezza duratura del suo valore intrinseco.

La realtà immaginata da Orwell è fondamentalmente oppressiva, una società nella quale le persone avrebbero desiderio di essere loro stesse, ma un vigile occhio onnisciente, quello del Partito, le costringe a una conformità senza fine. La loro civiltà è immersa in una guerra perenne, i nemici sono sempre alle porte, quindi il cittadino se desidera salvaguardare il bene della sua società, deve sottoporsi al costante sguardo del Grande Fratello, perchè Egli sa. Il cittadino viene fatto vivere solo sul presente: la verità è ciò che il Partito dice. O meglio, è ciò che il partito sta dicendo. Infatti nel momento nel quale il presente è trascorso, e dunque diviene passato, non ha più senso, nè deve essere ricordato.

Per me, il concetto più terrificante di tutto il libro è senz’altro il complesso processo della Neolingua, vale a dire la lingua ufficiale imposta dal Partito, ottenuto tramite la cancellazione della maggior parte dei vocaboli. Scopo specifico della Neolingua è fornire un mezzo espressivo che sostituisca la vecchia visione del mondo e le vecchie abitudini mentali, ma anche rendere impossibile ogni altra forma di pensiero. Perché è il libero pensiero ciò che più spaventa il Partito, la possibilità che l’uomo possa pensare da solo, in modo non omologato.

“L’autorità dell’Oceania è programmaticamente orientata ad imporre un linguaggio inadatto all’espressione delle potenzialità critiche del pensiero. Cerca quindi di abituare le menti umane alla sudditanza e cerca di canalizzare l’emotività individuale nelle sole direzioni utilizzabili per la riproduzione dell’ordine sociale. Orwell ha presentato in modo così accurato processi mentali (“bipensiero”) e strutture linguistiche (“neolingua”) funzionali all’irrazionalismo sociale totalitario, che 1984 è diventato una citazione d’obbligo nei manuali di psicologia sociale e negli studi sulla comunicazione interpersonale”.

Il tema della lingua è strettamente collegato a quello della cultura: la fine dell’arte letteraria è dovuta alla mancanza di parole per esprimere i concetti. La Neolingua ne contempla un numero di molto inferiore a quello dell’Archeolingua che sta per scomparire. Il paradosso che sottende alla compilazione della stesura definitiva del vocabolario della Neolingua è inquietante: l’eliminazione delle parole eterodosse o, in qualche modo, ritenute pericolose determina anche l’annientamento della loro sostanza concettuale.

Come in quasi tutte le opere utopiche e distopiche, in 1984 la cultura, soprattutto nella forma letteraria e poetica, è annullata dal Potere assoluto. Il governo ritiene l’arte un’espressione del pensiero, della fantasia, della conoscenza di ciò che avviene, concetti troppo pericolosi per essere lasciati incontrollati. La letteratura in 1984 è morta, non esiste più come espressione di libero pensiero, non vengono pubblicati nuovi libri e tutti quelli vecchi vengono distrutti o rielaborati, purgati, riscritti (quindi, comunque, distrutti).

Paradossalmente, molte delle parole della Neolingua inventate da Orwell per 1984 (doublethink, memory hole, unperson, thoughtcrime, Newspeak, Thought Police, Room 101, Big Brother) sono diventate di dominio pubblico nella lingua inglese ma non solo, immediatamente riconoscibili anche al di fuori del mondo anglofono e subito attribuite a un incubo di distopia e totalitarismo: Grande Fratello, controllo poliziesco del pensiero, bipensiero, buco della memoria.

«Si doveva vivere (o meglio si viveva, per un’abitudine, che era diventata, infine, istinto) tenendo presente che qualsiasi suono prodotto sarebbe stato udito e che, a meno di essere al buio, ogni movimento sarebbe stato visto»

“L’ignoranza è forza”, terzo paradosso sul quale si regge la propaganda di partito in 1984, è un principio guida, che non è difficile vedere adottato anche dai governanti attuali: l’analfabetismo di ritorno, la demonizzazione della cultura classica (pensiamo a certi felpati che quando non sanno rispondere a un contraddittorio si difendono schernendo i “professoroni”), la funzione manipolatrice della pubblicità, della televisione e dei mezzi di comunicazione in generale, attraverso i quali si può facilmente imporre il proprio controllo sulle masse; il revisionismo storico, perché «chi controlla il passato controlla il futuro»; la presenza capillare del televisore e del potere occulto dei media, che annulla il libero pensiero tenendo l’individuo asservito. Ciò che è profetico in 1984 non è l’idea che la televisione ci permetterà di vedere fatti e persone distanti migliaia di chilometri, ma che quelle persone potranno vedere noi: è l’idea del controllo a circuito chiuso, che si applicherà nelle fabbriche, nelle carceri, nei locali pubblici. E poi ancora: la pedagogia dell’odio, il razzismo che separa i membri del Partito dalla massa dei prolet, i bambini educati a spiare e denunciare i genitori, il puritanesimo della razza eletta per cui il sesso deve valere solo come strumento eugenetico.

Il tutto al servizio di un agghiacciante conformismo: «Ortodossia vuol dire non pensare, non aver bisogno di pensare. Ortodossia e inconsapevolezza son la stessa cosa».

La mente gli scivolò nel mondo labirintico del bipensiero. Sapere e non sapere; credere fermamente di dire verità sacrosante mentre si pronunciavano le menzogne più artefatte; ritenere contemporaneamente valide due opinioni che si annullavano a vicenda; sapendole contraddittorie fra di loro e tuttavia credendo ad entrambe, fare uso della logica contro la logica; rinnegare la morale proprio nell’atto di rivendicarla; credere che la democrazia sia impossibile e nello stesso tempo vedere nel Partito l’unico suo garante; dimenticare tutto ciò che era necessario rivendicare ma, all’occorrenza, essere pronti a richiamarlo alla memoria, per poi eventualmente dimenticarlo di nuovo. Il bipensiero implica la capacità di accogliere siimultaneamente nella propria mente due opinioni tra loro contrastanti, accettandole entrambe.”

E’ un libro veramente triste e potente: non esistono rapporti umani significativi. Tutto quello che eleva l’uomo al di sopra degli istinti animali, l’amicizia, l’amore (per un partner o per un famigliare, o per l’arte) è bandito, impossibile approfondire qualsiasi contatto umano. La guerra è perenne, la fame persistente, la bruttura e l’asservimento ovunque.

Affascinante e terribile.

Lorenza Inquisition

L

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Senza un soldo a Parigi e Londra – George Orwell #recensione #GeorgeOrwell

“Il primo contatto con la miseria è un fatto curioso, ci avete pensato tanto alla miseria, l’avete temuta tutta la vita, sapete che prima o poi vi sarebbe piovuta addosso, ma in realtà, tutto è totalmente e prosaicamente diverso.
V’immaginavate che sarebbe stata terribile, ma è soltanto squallida e noiosa, gli espedienti ai quali vi costringe, le meschinità, le pitoccherie.
E poi ci sono i pasti, che rappresentano la difficoltà maggiore. Scoprirete che cosa vuol dire avere fame. Scoprirete che quando un uomo va avanti a pane e margarina, non è più un uomo, è solo un ventre con qualche organo accessorio.”

orwellSenza un soldo a Parigi e Londra è il primo libro scritto da Orwell, e racconta la sua vita di miseria in queste città. Il libro non offre soluzioni, semplicemente racconta la sua esperienza, così come l’ha vissuta: di come, dopo aver tentato di guadagnarsi da vivere facendo il giornalista a Londra, ma senza fortuna, si trasferì a Parigi, ma anche qui, la possibilità di esercitare un lavoro che gli desse da vivere sfuma, come sfuma il gruzzolo che l’aveva sostenuto i primi tempi.
Dopo aver impegnato tutto al banco dei pegni, per sostenersi accetta di fare il lavapiatti, conducendo una vita da schiavo e riducendosi all’abbruttimento totale. Qui c’è tutta una classificazione di mestieri dati agli immigrati che ricorda un po’ quella di oggi, ad esempio, gli italiani sono quasi tutti camerieri.
Finalmente gli si apre una posizione lavorativa migliore a Londra, ma, tornato in città con l’aiuto economico di un amico, scopre che il lavoro gli è stato temporaneamente sospeso. A questo punto, ripiomba nell’assoluta povertà e si ritrova a fare il vagabondo, dormendo negli ospizi e mangiando quel poco che può rimediare. Lo affiancano compagni di strada, invisibili come lui, che gli insegnano mille astuzie per sopravvivere. Fra i vagabondi incontrati ci sono anche persone notevoli, dignitose e solidali. Questo libro è quindi alla fine un saggio, un resoconto, su tutta quell’umanità quasi invisibile che si trova attorno a noi e fatta da persone senza un tetto né un lavoro, da indigenti, vagabondi ridotti alla miseria, che si trascinano sulle strade in cerca di cibo e di un rifugio quale che esso sia, per non morire di fame e di freddo, la dura e disperata battaglia giornaliera per la sopravvivenza vista dalla parte di quegli sventurati ai quali la sorte ha tolto tutto.

“… ci sono alcune cose che, campando senza soldi, ho imparato bene: non penserò mai più che tutti i vagabondi siano furfanti ubriaconi, non mi aspetterò gratitudine da un mendicante quando gli faccio l’elemosina, non mi sorprenderò se i disoccupati mancano di energia, non aderirò all’Esercito della Salvezza, non impegnerò i miei abiti, non rifiuterò un volantino, non gusterò un pranzo in un ristorante di lusso.
Questo tanto per cominciare”.

L’avventura londinese lo fa giungere alla conclusione che i vagabondi rappresentano un passivo per il paese, in quanto alimentando queste persone in maniera insufficiente e non facendoli lavorare, si vanifica un patrimonio di vita lavoro e denaro speso per il mantenimento dei numerosi ospizi.

Perché i mendicanti sono disprezzati? Io credo che dipenda semplicemente dal fatto che non riescono a guadagnare abbastanza per vivere decorosamente. In pratica a nessuno importa se un lavoro è utile o inutile, produttivo o parassitico; l’unica cosa richiesta è che sia redditizio. Quale altro significato c’è in tutte le chiacchiere moderne sull’energia, l’efficienza, l’utilità sociale e il resto, se non: «Fa’ quattrini, falli legalmente, fanne un mucchio»? Il denaro è diventato il banco di prova del valore. In questa prova i mendicanti falliscono, e per questo sono disprezzati.

Raffaella Giatti