Fiesta – Ernest Hemingway #recensione #ernesthemingway #fiesta

 “Non m’importava che cosa fosse il mondo. Volevo soltanto sapere come viverci. Forse, se scoprivi come viverci, imparavi anche che cos’era”.

Dopo aver letto Hemingway che in Festa mobile racconta della sua gioventù letteraria a Parigi, ho iniziato il suo primo romanzo, scritto proprio in quegli anni: Fiesta (The sun also rises). Come si dice, il vero scrittore comincia con il raccontare di ciò che sa: e il giovane Hemingway riversò in Fiesta tutto quello che fino ad allora aveva vissuto: i suoi due anni di guerra in Italia, la ferita al fronte e la paura della morte, il soggiorno parigino con le chiacchierate di letteratura nei cafès e la libertà delle donne nel dopoguerra, e l’esperienza della corrida in Spagna durante la festa di San Firmino a Pamplona.

Col tempo, Hemingway ha spiegato il tema del romanzo come una risposta alla frase di Gertrude Stein sulla Lost Generation: la signora descriveva i giovani dell’età di Hemingway come una generazione perduta, o meglio smarrita, dopo una guerra mondiale che era esplosa nonostante tutti in patria sostenessero il contrario facendoli maturare di colpo, catapultandoli a vivere su note di incredibile terrore, furore e passione per tutti gli anni del conflitto, per poi risputarli fuori nella vita civile senza obiettivi, senza direzione, senza ideali, in un mondo cambiato che non riconoscevano più, ventenni allo sbando che non riuscivano a smettere di bere, parlare, fare sesso con le persone sbagliate, incuranti delle conseguenze perchè non credevano di avere un futuro.

Ma Hemingway sentiva di dover difendere i propri coetanei, che avevano sì i difetti che l’autrice sottolineava, ma che lui trovava fossero, di fondo, resilienti. Ogni generazione, scriverà in Festa mobile, è perduta per qualche motivo, lo è sempre stata, e sempre sarà così: ma, come recita il titolo originale di Fiesta, da un verso dell’Ecclesiaste: The sun also rises, il sole sorge sempre, la terra prosegue il suo giro, gli uomini malconci, maltrattati, eppure mai sconfitti.

Jack Barnes, il protagonista, incarna questo spirito, un uomo che ha molto in comune con l’autore: un passato in guerra tormentato; una certa maestria con le parole, che gli permette di vivere discretamente mantenendosi come giornalista a Parigi; un giro di amici espatriati che arrivano dall’America disillusi; una brutta ferita, che per Hemigway si risolse, e che invece lascia Jack Barnes menomato, sessualmente impotente. Non è, fedele al proposito di Hemingway, propriamente uno sconfitto: vive, scrive, lavora, legge, prepara le proprie vacanze di pesca sui Pirenei e un soggiorno in Spagna per la corrida. Soffre, ovviamente: è innamorato della protagonista femminile, Brett, una specie di Circe che vive la sessualità con abbandono, distruggendo però nel processo tutti gli uomini che la circondano, e sè stessa. L’unico apparentemente immune alla sua distruttività è Jack, che è l’uomo a cui sempre Brett ritorna, ma naturalmente la loro relazione funziona in fodno solo perchè è destinata a rimanere su un piano platonico, a non svilupparsi mai pienamente.

La storia è divisa in tre sezioni, una prima parte ambientata a Parigi, quella di mezzo che è su un soggiorno nei Pirenei per la pesca, e infine gli ultimi capitoli con l’appassionata descrizione dei giorni della corrida in Spagna. Jack, Brett e tre uomini loro amici si spostano per l’Europa, bevendo e mangiando, tutti tranne il protagonista in genere a scrocco, incarnando non proprio la decandenza dei costumi dopo la guerra, ma più precisamente il declino di un certo rigore morale che gli americani, secondo Hemingway, non possedevano più. Egli ritrae matador, prostitute parigine e contadini spagnoli tutti sullo stesso piano: gente onesta, sincera, vera, che lavora per vivere, ognuno a suo modo. I decadenti, gli immorali, quelli che mentono, anche a sè stessi, sono gli amici americani di Jack, l’unico che lavora e paga i suoi conti, che diventa suo malgrado il fulcro morale della storia.

E’ anche, ovviamente, una storia d’amore molto tormentata, non solo da parte di Jack, ma di quasi tutti gli uomini presenti nel libro, matador compreso, irretiti dal fascino di Brett, giovane donna moderna, appena divorziata e dai capelli alla maschietta, che non si comporta bene, che non possiede dirittura morale, e che nonostante tutto, grazie alla scrittura superiore di Hemingway, senti di dover disprezzare senza peraltro riuscirci, perchè suscita un’involontaria -ma profonda – empatia nel lettore.

In teoria Fiesta è un libro che non dovrebbe ancora piacere, a novant’anni dalla prima stesura: è scritto da un uomo che aveva idee sessiste e razziste, ha un tema molto violento nelle pagine sulla corrida, non ha grandi accadimenti nella trama e quasi nessuno dei protagonisti è memorabile: non parlano dei loro sentimenti, non mettono a nudo la loro anima, no, ordinano solo da bere e da mangiare, e da bere, bestemmiano, e in generale se la spassano.

Eppure c’è questa sofferenza morale del protagonista che è impossibile da ignorare, il suo desiderio di andare avanti con la quotidianità senza pensare troppo al futuro perchè altro non si può fare, la ricerca di una dignità che travalichi la propria condizione di uomo mancato, un’impotenza (proprio) che non è mai arrendersi di fronte a una vita che non sarà come la si era pensata da giovani ma che può avere comunque una sua bellezza: tutto ciò conquista ancora oggi, nel 2017. Lo chiudi e  pensi che sì, saranno anche stati perduti, quei giovani, ma noi non abbiamo poi avuto molto che potrebbero invidiarci, anzi. E in quanto a sentirci perduti come generazione, niente di nuovo neanche qui.

A me è piaciuto tantissimo, anzi l’ho amato proprio; perchè è un libro vecchio, certo; ma è reale, è vero, parla della vita come prima o poi tutti la conosciamo: triste, solitaria, scoraggiante, buttiamoci pure in mezzo un amore impossibile, è così che va, no? Eppure può anche essere così bella, allo stesso tempo, che toglie il respiro, a volte. E’ questo, Fiesta. E’ così che nasce un classico, in fondo: mantiene grazia, stile, significato per generazioni e generazioni a venire, e continua a rispondere a domande che ogni uomo, in ogni epoca, si pone.

Hemingway, non mi sei piaciuto per quasi quarant’anni, com’è sta storia che ti sto amando adesso?

“Non sopporto il pensiero che la mia vita stia scorrendo via così in fretta e che io in realtà non la viva”.

Lorenza Inquisition

Festa mobile – Ernest Hemingway #recensione #Hemingway

Poi mentre arrivavo alla Closerie des Lillas con la luce sul mio vecchio amico, la statua del maresciallo Ney con la sciabola sguainata e l’ombra degli alberi sul bronzo, e lui là solo e nessuno alle sue spalle, e al disastro che aveva combinato a Waterloo, pensai che tutte le generazioni erano perdute da qualche cosa e lo erano sempre state e sempre lo sarebbero state.

Nel novembre del 1956 Ernest Hemingway si trovava a pranzo al Ritz di Parigi; il direttore dell’hotel gli chiese se fosse a conoscenza del fatto che nel loro magazzino erano custoditi due bauli a suo nome, da lui lasciati in deposito nel lontano 1928, e mai più reclamati. Lo scrittore non si ricordava di averli lasciati lì, ma certamente negli anni si era chiesto che fine avessero mai fatto i suoi due bauli, uno in particolare, regalo personale di Louis Vuitton. Li aprì, questi due bagagli sopravvissuti in una cantina a quasi trent’anni parigini, a un’invasione nazista e a una guerra mondiale, trovò una collezione di vestiti ammuffiti, menu di ristoranti, vecchie ricevute e note, oggetti per caccia e pesca, ritagli di giornali, biglietti di scommesse per le corse, corrispondenza varia, e in fondo, il vero tesoro: i suoi taccuini, i diari personali, due file allineate sul fondo del baule di quadernetti zeppi di appunti, nella sua scrittura precisa, riempiti negli anni in cui viveva lì con la prima moglie Hayden, mentre cercava il suo posto nel mondo letterario e frequentava il salotto di Gertrude Stein, con una lettera di presentazione a James Joyce e una per Ezra Pound.

Hemingway aveva vinto il Premio Nobel nel 1954, due anni prima; era relativamente giovane, 56 anni, ma gravi problemi di salute lo prostravano, uniti a un alcolismo che si rifiutava di combattere. L’idea di rileggere i suoi diari per organizzare un libro di memorie dei suoi anni parigini gli ridiede un certo stimolo vitale, e lavorò a quelli che lui chiamava “Schizzi di Parigi” per qualche mese, e poi a intermittenza per i pochi anni che gli rimasero prima di morire, nel 1961. Non terminò mai il libro, che eventualmente uscì nel 1964, postumo e incompiuto, dietro cura della quarta e ultima moglie, Mary, con il titolo di Festa mobile.

La storia editoriale di questo libro è travagliata, e ancora non trova pace: se la prima edizione curata dalla vedova fu criticata da studiosi di Hemingway che comparando le note a mano dei diari dell’autore con l’edizione stampata trovarono che l’approccio di Mary Hemingway era andato ben oltre il ruolo di sola esecutrice, arrivando alla reale manipolazione di alcune parti di scrittura, nel 2009 un nipote di Hemingway ne curò una seconda e rimaneggiata edizione, cambiando ordine di capitoli e avvenimenti, togliendo e aggiungendo parti a piacimento, e in generale editando senza ritegno.

La critica ufficiale ha concluso che le due edizioni, per chi desidera studiare Hemingway, sono complementari: la prima, curata dalla moglie che rimase con l’autore per tutti gli ultimi anni, aiutandolo con gli appunti e la stesura, è da considerarsi la più fedele all’intento originale dello scrittore; la seconda ha comunque un valore intrinseco, perchè sono stati aggiunti alcuni capitoli e soprattutto una serie di appunti e note originali nelle appendici finali che forniscono un imperdibile approfondimento.

Il libro, per chi vuole semplicemente leggerlo per il piacere di trascorrere con Hemingway qualche ora negli anni ’20 a Parigi, è molto piacevole, anche se a tratti si ripete, molto molto romantico in alcuni passi. E’ un’opera amatissima dal pubblico, generazioni dopo generazioni di giovani si sono innamorate di quel periodo d’oro è al centro delle storie raccontate: una città che rinasce dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, piena di vita e libertà, di scrittori e poeti e pittori che vivono solo per la ricerca di un ideale artistico. Hemingway non è da meno: ufficialmente è in Europa per lavorare come giornalista per un quotidiano canadese, ma è una commissione saltuaria che paga poco; e la gran parte delle sue giornate sono dedicate alla scrittura come esercizio. Sa già di poter scrivere racconti, alcuni anche buoni addirittura; ma vuole fare il salto di qualità, vuole imparare a scrivere prosa in romanzi, e a farlo bene, al massimo del suo potenziale artistico. E per fare questo sacrifica molto, ore di sonno e di impegno continuo ed estenuante, passando giornate in un cafè a scrivere nei suoi taccuini, sui tavoli dei ristoranti, in soffitte non riscaldate, mangiando mandarini e castagne. Queste sono le parti più romantiche e accattivanti del libro, il giovane Hem (appena ventitrè anni) che osserva dal suo abbaino i tetti di Parigi mentre respira dopo aver scritto, mentre cammina con le prime sferzate di pioggia invernale nei giardini del Lussemburgo diretto ai musei, mentre passeggia nel Quartiere Latino diretto verso casa di uno dei suoi amici, per parlare di letteratura con Gertrude Stein o per boxare con Ezra Pound. Scopre Sylvia Beach, la gentilissima proprietaria di una deliziosa libreria, Shakespeare and Company, che non solo presta agli artisti libri a credito ma anche soldi, senza interessi. Cena con un mangiafuoco e compra quadri, raccoglie soldi presso tutti gli amici letterati perchè desiderano creare un fondo da donare a T.S. Eliot perchè lasci il proprio lavoro in banca, che lo imbruttisce e non gli permette di vivere la sua arte, e disprezza Ford  Madox Ford in quanto diversamente abile nell’approccio all’igiene personale. Ci parla, per l’ultima lunga parte finale, della storia così tristemente tragica di Scott Fitgerald, che trovò in Zelda la sua musa e la sua dannazione, e del suo dolore personale nel vedere un caro amico perdersi in una spirale di autodistruzione, e sprecare un talento così unico e prezioso.

Non è un libro perfetto, troppo discontinuo nei suoi capitoli quasi tutti slegati tra loro, a volte ripetitivo in frasi e situazioni. Ma l’ho trovato magnifico. Nel novembre del 2015, dopo gli attentati di Parigi, Festa mobile è tornato in cima alle classifiche francesi, al primo posto su Amazon nei libri più venduti in Francia, mentre i librai dichiaravano di avere un’impennata di vendite, 500 copie al giorno anziché le ordinarie dieci. Questo perché dopo gli attentati del 13 novembre il libro è diventato un modo personale di rendere omaggio alle persone uccise e ferite, una sorta di rivendicazione degli ideali dei parigini, la libertà, l’individualismo, il piacere e la gioia per la vita. Saperlo rende la lettura ancora più agrodolce, mentre Hemingway ci racconta di un tempo in cui potevi viaggiare per tutta l’Europa spostandoti sulle Alpi in inverno e sulla riviera ligure in primavera, per le corride in Spagna in estate e di nuovo a Parigi in autunno, bevendo sempre vino o birra ai pasti, mangiando ostriche e agnello nei cafès, passando gran parte della tua vita a leggere libri e a discutere di arte e pure in tutto ciò venendo considerato dal resto del mondo un povero (non un poveraccio, ma comunque…). Ma non ti importava, perchè avevi i tuoi amici e una donna che ti amava (prima che tu la tradissi per una più giovane, alas!), avevi i tuoi libri e i tuoi taccuini, e perchè vivevi in un tempo in cui il futuro ti si spalancava davanti e tutto era possibile, e soprattutto il cambiamento non era qualcosa di cui avere paura, mai.

 Lorenza Inquisition