Negli anni 90 Stephen King era la mia fonte indiscussa una e trina per i suggerimenti di lettura e cinematografici. Non essendoci i social, mi ero segnata il suo penziero tramite Danse macabre, un saggio del 1981 in cui il Maestro esamina il genere horror parlando di film, libri e fumetti che abbiano avuto importanza – a suo insindacabile giudizio – nella categoria. Da brava piccola Sheldon Cooper io mi sono segnata tutti i titoli e nell’arco di vari anni ho cercato di colmare le lacune. I film erano spesso più difficili da recuperare delle letture, ai tempi, anche perchè si trattava quasi sempre di pellicole in bianco e nero degli anni d’oro di Hollywood; ma io con pazienza mi spulciavo le programmazioni di Fuori Orario e di Rete 4 alle tre di notte e spesso trovavo risultati.
Uno dei film citati era appunto The Bad Seed, in italiano tradotto come Il giglio nero, di Mervyn LeRoy, uscito nel 1957, tratto da un romanzo di William March, vincitore del National Book Award per la narrativa nel 1955. Il titolo si trova in italiano sia come Il seme cattivo, sia più recentemente come I semi del male.
L’opera narra la storia di una bambina assai particolare: Rhoda ha otto anni, è molto educata, perfettina, pulita e sempre puntuale nel fare i compiti senza essere pregata. Una ragazzina dolce e matura per la sua età, che i grandi adorano e le insegnanti vezzeggiano perchè non sembra neanche una bambina, al contrario degli altri pargoli suoi coetanei che piangono, fanno i capricci, vogliono fare le pizze di fango e si mettono le dita nel naso in chiesa davanti al parroco. Ma Rhoda no. Ama vestirsi di tutto punto, non si sporca mai giocando, e come la raccapricciante bambolina che è, porta i capelli in quelle treccine perfette che sono il sogno delle mammine pancine di tutte le epoche.
Ma, soprattutto, Rhoda preoccupa sua mamma Christine. Perchè Rhoda è una bambina dal cuore adulto, forse antico, non possiede coscienza, e ha la mente e l’animo di un assassino.
Le venne in mente all’improvviso che la violenza è un fatto incontrovertibile del cuore, forse il più importante di tutti, un elemento inestirpabile che giace, come un seme maligno, dietro alla gentilezza, alla compassione, al di là della comprensione stessa dell’amore. A volte giaceva nascosto in profondità, a volte sepolto appena in superficie; ma sempre era presente, pronto ad apparire, sotto le giuste circostanze, in tutta la sua orribile, irrazionale malvagità.
Questo è un romanzo del 1954, ha più di sessant’anni, e fece scalpore all’epoca perchè parla di una perfetta sociopatica di otto anni, che vive e prospera in quello che dovrebbe essere l’ambiente protetto per eccellenza: una famiglia della middle class americana. Il tema era per i tempi assolutamente scandaloso e inaudito: non solo la protagonista ha l’animo nero di un adulto calcolatore e di un killer senza rimorsi, ma è una bambina, bionda e boccolosa con i codini e le gonnelline a godot, che uccide non per passione, per dolore, pazzia o altri sentimenti estremi, comunque umani; no, lo fa per convenienza, avidità, calcolo, senza rigurgiti di coscienza, in modo lucido e disumano.
La paura della censura popolare e il timore di uno scandalo nel pubblico furono tali che il finale del libro, più amaro, venne cambiato per l’uscita della pellicola. E mi ricordo che mi colpì molto il fatto che durante i titoli di coda riappaiono tutti i protagonisti sfilando come a teatro, ognuno sorridendo e inchinandosi, per finire con la bambina protagonista, tutta treccine e grembiulino, che gioca con la madre in un chiaro intento di stemperare le ultime immagini e la generale impressione di angoscia della pellicola. Il romanzo peraltro al suo apparire in America fu accompagnato da vari slogan che parlavano di shock provocato dalla trama, che è, ancora oggi, comunque disturbante. Ma ovviamente facendo un minimo sforzo mentale, si capisce quanto deve essere stato inquietante per il pubblico degli anni Sessanta contemplare la storia di una giovanissima serial killer, una disturbante Little Miss Sunshine della crudeltà.
“Non provava nessuno dei rimorsi e delle ansie propri dell’infanzia e naturalmente non aveva alcuna capacità di affetto, perché non provava interesse che per se stessa. Ma forse ciò che era più notevole in lei era la sua infinita avidità.”
Il libro, come dicevo, rispetto al film è più cattivo e meno consolatorio, dunque direi migliore. Ha i suoi difetti, è un po’ prolisso, un poco lento a tratti, forse anche prevedibile nella conclusione. Sa tutto sommato di qualche cosa di già visto, ma ovviamente parliamo di un’opera che insieme a Crooked House della Christie (1949) ha inaugurato un genere, e quindi ha un suo valore intrinseco al di là degli anni passati e del tema super-sviluppato poi nel tempo.
Sorvolando sui difetti, comunque minori, è un romanzo che mantiene un suo inquietante fascino, l’opera di un uomo tranquillo che creò un’indimenticabile protagonista, una bambina senza morale che, come il male che incarna, non guarda in faccia nessuno.
Lorenza Inquisition