Una lettera al figlio quindicenne.
Un’orazione appassionata.
Un romanzo di formazione.
Un discorso messianico, a tratti.
«Ti scrivo nel tuo quindicesimo anno, perché questo è l’anno in cui hai visto Eric Garner strangolato per aver venduto delle sigarette; perché adesso sai che Renisha McBride è stata ammazzata mentre chiedeva aiuto… E perché adesso sai, mentre prima lo ignoravi, che i dipartimenti di polizia del tuo paese sono stati investiti dell’autorità di annientare il tuo corpo. Non importa se quella distruzione è il risultato di un eccesso involontario. Non importa se ha la sue radici in un’incomprensione. Vendi sigarette senza il permesso e il tuo corpo potrà essere distrutto. Resisti a chi cerca di intrappolare il tuo corpo, e potrà essere distrutto. Imbocchi una scala buia e il tuo corpo potrà essere distrutto. Raramente i distruttori saranno ritenuti responsabili. Molti di loro riceveranno la pensione. E quella distruzione è semplicemente il superlativo di un dominio le cui prerogative includono perquisizioni, arresti, pestaggi e umiliazioni. Tutto ciò è comune per la gente nera. Tutto ciò è antico. E non c’è mai un responsabile».
Toni Morrison ha descritto questo libro come “lettura imprescindibile”.
L’ho concluso da pochi istanti, ma già a metà circa concordavo con quell’affermazione.
Tra me e il mondo. Non è un titolo a caso.
Il mondo è il Sogno Americano. Tra questo e l’autore, tra questo è la vita di un nero, c’è un abisso divenuto incolmabile.
«La schiavitù non è una massa di carne indefinibile. È una donna precisa, specifica, ridotta in schiavitù, la cui mente è attiva come la tua, la cui gamma di sentimenti è vasta come la tua; che preferisce il modo in cui la luce cade in un angolo particolare del bosco, a cui piace pescare nei piccoli gorghi nel ruscello lì accanto, che ama sua madre in modo complicato e personale, pensa che sua sorella parli troppo ad alta voce, ha una stagione favorita ed è bravissima a farsi i vestiti…»
Una vita vissuta col terrore di essere violati nel corpo, molto prima che nell’anima.
La paura di dire una parola di troppo, di vedersi puntata addosso la pistola di un coetaneo, la paura di essere picchiato, la paura di essere violentata. Un popolo intero costretto a vivere nella paura.
Un padre attivista, una Pantera Nera, l’avanzata negli studi, l’ingresso alla Howard University, «ho cominciato a vedere il mondo dei neri aprirsi di fronte a me, a capire che è molto più del riflesso di quello di coloro che pensano di essere bianchi», la consapevolezza delle potenzialità del corpo dei neri,la bellezza e l’amore che contengono, e che spesso viene spezzata dal razzismo, dalle pistole dei poliziotti bianchi, ma soprattutto da una mentalità radicata in duecentocinquanta anni di storia americana. Una storia di Potere, perchè questo è il vero punto. Chi lo detiene e chi lo subisce, chi difende la sua villetta, il suo prato rasato e il suo barbecue serale, contro ipotetici avvicinamenti e sconfinamenti di altri che sono ritenuti inferiori.
Tutto è terribile, in questo romanzo. La prima consapevolezza che il tuo corpo è un ostacolo alla tua vita. Che non sei uguale agli altri. Un momento di dolore così alto da toglierti il fiato e farti correre via in lacrime.
Da lì in poi la tua vita sarà tutto uno stare in guardia, nella postura stessa, nel modo di camminare, dovrai sempre guardarti alle spalle e davanti, attentissimo a non attirare l’attenzione di nessuno, specialmente delle forze dell’ordine, che in un solo secondo possono decidere di svuotare quel tuo corpo di ogni linfa vitale.
Coates scopre questo dolore quando muore un suo amico, Prince Jones, ucciso da un colpo di pistola alla schiena sparato da un poliziotto, che lo aveva scambiato per un criminale.
Il figlio di Coates scopre questo dolore quando scopre che gli assassini di Michael Brown resteranno assolutamente impuniti.
Sembra un percorso assolutamente ineludibile.
Puoi emanciparti, puoi cambiare città, puoi essere il migliore nel tuo lavoro, ma, come dice Mabel Jones, primario di radiologia, benestante, e madre di Prince Jones, “è stato sufficiente un atto di razzismo, uno solo” per riportare indietro di duecento anni le lancette della storia, e a cancellare tutte quelle che sembravano conquiste acquisite e scolpite nella roccia.
Nessuna parola di conforto. Nessuna consolazione. Nessuna speranza. Un libro pieno di terrore e di rabbia. La cosa peggiore è la presa di coscienza che l’ingiustizia è entrata a far parte di una mentalità.
«In America distruggere il corpo nero è una tradizione, è parte del retaggio»
Ti vorranno convincere con l’essere cristiano, con l’invito ipocrita alla protesta non violenta, “I miti erediteranno la terra”. Ma “i miti venivano pestati a Baltimora Ovest, calpestati a Walbrook Junction, fatti a pezzi a Park Heights e stuprati nelle docce della prigione. La mia comprensione dell’universo era fisica, e il suo arco morale curvava verso il caos per concludersi in una bara”.
Un durissimo, violento, furente e poetico atto di accusa. Che è rivolto a noi bianchi, all’America intera, al Potere. Ma che non trova soluzione nella sola accusa o nella speranza che una razza si ribelli. Non basterà. Occorrerà che siano proprio i bianchi, a prendere atto della situazione, a non scadere nella compassione, perchè è sbagliata anche quella, non basta e non serve. Serve riconoscere il diritto alla libertà altrui, al diritto altrui ad essere indipendenti, al rispetto verso l’altrui possibilità di vivere a testa alta. Uno schiaffo sui nostri volti, questo libro, che per me è atto dovuto.
Musica: Strange fruit, Billie Holiday
Carlo Mars