Di “Orfani bianchi” hanno già detto molte cose Barbara Chiari e Mariarosaria Murmura su questa pagina e quindi non mi dilungo troppo perché sono abbastanza d’accordo, paradossalmente con entrambe benchè di pareri abbastanza diversi.
Manzini celebra un elogio della badante che sicuramente è meritevole per il rilievo sociale e culturale che solleva su un tema molto concreto e che la letteratura italiana contemporanea mi pare trascurare colpevolmente. E’ un racconto sincero, dolente, forse un po’ scontato in alcuni passaggi e un po’ troppo grezzo in certi caratteri, forzati all’eccesso probabilmente per rendere più manichea la differenza fra “noi” e “loro”, italiani e immigrati (il giardiniere filippino macchiettistico, gli eccessi di cattiveria e insensibilità della ricca famiglia che ingaggia la protagonista, e così via). La “via crucis” che la protagonista moldava Mirta è costretta a percorrere è sicuramente rappresentativa di moltissime storie di sacrifici e umiliazioni continue a cui è sottoposta una categoria di lavoratori che dovrebbero avere una dignità ed un riconoscimento di rispetto di ruolo ben diverso. Ma la conclusione della vicenda, violentemente drammatica, sembra in effetti troppo repentina ed elusiva di un approfondimento narrativo, e le vicende del figlio Ilie presso l’internat moldavo nonchè le conseguenze nel rapporto con la madre diventano troppo inspiegabilmente definitive ed irrimediabili.
E forse Manzini ha voluto mantenere il suo racconto nella dimensione breve a lui congeniale, magari sottovalutando le sue risorse di narratore che comunque mi pare dia qui una conferma della sua caratura di scrittore non solo di genere.
Renato Graziano