Libro diviso in tre atti, per un totale di circa 250 pagine. Non molte, almeno per me.
E tuttavia un libro pesante da leggere per le emozioni forti che suscita. Ogni atto è un macigno e ho dovuto sospendere la lettura ad ogni fine capitolo.
La storia è quasi banale: una donna rimane uccisa in un attentato a Gerusalemme, non ha documenti in borsa e per alcuni giorni rimane all’obitorio senza nome…
A prendersi l’incarico di capire chi fosse davvero questa donna, indotto da un velenoso articolo su un settimanale, sarà il responsabile delle risorse umane dell’azienda dove lei lavorava, su incarico del proprietario.
Dopo averlo finito, ho letto un po’ di recensioni sul web. La maggior parte punta l’attenzione sul tema dell’alienazione, dell’indifferenza della società verso i propri membri, della disumanità…
Temi senz’altro presenti, eppure secondo me, c’è anche altro, forse meno evidente ma che traspare, anzi viene dichiarato, quasi verso la fine: una delle figure ai margini della storia – ma che permette all’azione di prendere il via – il giornalista dice “(…) non sottovaluti quello che sono riuscito a fare. Negli ultimi anni ho scritto decine di articoli di denuncia. Ho attaccatto persone e istituzioni, senza mai alcun risultato concreto. Sono stato minacciato di querela, ma alla fine nessuno ha mai sporto denuncia contro di me. Le persone che ho attaccato mi passano vicine come se io fossi un fantasma (…) è la prima volta che vedo un mio articolo, buttato giù di getto, in una notte, cambiare la realtà. Non solo ha portato un’azienda grande e importante ad ammettere la propria colpa, ma l’ha anche spinta all’azione. E mi creda, la realtà che si è creata dalle mie parole mi ridà fiducia”.
Quasi come a dire che la realtà si può cambiare, e si può cambiare insistendo, anche con piccoli e apparentemente inutili gesti.
Però il finale sembra ribaltare questa visione, lasciando un po’ di amaro in bocca…
Non dico di più per evitare spoiler a chi dovesse ancora leggerlo.
Cecilia Didone
DESCRIZIONE
Un terrorista suicida si fa esplodere in un mercato di Gerusalemme. Una donna muore. Era straniera, viveva da sola in una squallida baracca di un quartiere di religiosi. Nessuno va a reclamare il suo cadavere all’obitorio del Monte Scopus. Eppure Julia Regajev aveva ancora formalmente un lavoro, come addetta alle pulizie in un grande panificio della città. Un giornalista senza scrupoli sfrutta il caso per imbastire uno scandalo e denuncia la «mancanza di umanità» dell’azienda, che non si è nemmeno accorta dell’assenza della dipendente.
Tocca al responsabile delle risorse umane, spedito in missione dall’anziano proprietario del panificio, cercare di rimediare al danno d’immagine. Ma il viaggio verso la compassionevole sepoltura della donna si rivela per lui molto piú importante di un’operazione di facciata nei confronti dell’opinione pubblica. Per un personaggio di Yehoshua, essere responsabile significa non tanto essere colpevole, ma soprattutto portare attivamente il peso di un imperativo morale. Cosí il responsabile delle risorse umane impara che anche una piccola colpa, come quella di cui si è macchiata la sua azienda, non va trascurata, perché anche le piccole colpe possono avere un potere terribile.