Parole senza musica – Philip Glass

“La musica è la forza unificatrice che trascina lo spettatore dall’inizio alla fine, quale che sia l’ambito: operistico, teatrale, coreutico o cinematografico. E’ una forza che non viene dalle immagini, dal movimento o dalle parole.”

glass

Terza autobiografia dell’anno (seppure questa finisca come prima lettura del 2017) dopo quella noiosissima di Pete Townshend e l’incantevole scrittura di “Born to run” di Springsteen; tutte accomunate dalla stessa matrice creativa: la musica, solo che in “Parole senza musica” di Philip Glass, a emergere prepotentemente dalla pagina è l’uomo, attraverso un racconto pulito e onesto che ti cattura con grazia e pulsante intensità. La semplicità e la purezza con cui vengono narrati gli eventi lo fanno sembrare una persona come tanti altri, ma ne traspare l’intrinseca umanità e unicità. Naif e trasparente, diretto ma raffinato, Glass ci conduce per mano alla scoperta della sua personale parabola formativa come se si facesse una chiacchierata tra vecchi amici, raggiungendo picchi estremamente poetici nel tentativo di spiegare in primis a se stesso e conseguentemente agli altri, come avviene il suo processo creativo e che lo ha portato non tanto a pensare alla musica quanto a pensare la musica.

“[…] se per disegnare bisogna imparare a vedere allora il disegno sta all’atto del vedere come la danza sta al muoversi, la scrittura (la narrativa e specialmente la poesia) sta al parlare e la musica all’udire.”

Non è soltanto un racconto il suo, ma un affascinante e continua riflessione su molteplici temi antropologici e a vari livelli: si passa con nonchalance dagli anni di formazione alla descrizione dei più umili lavori svolti per nutrirsi, dagli incontri avvicendatisi nel corso degli anni e in varie parti del globo fino alle dettagliate spiegazioni di composizione musicale. Concetti e teorie del tutto affascinanti, impreziosite da aneddoti e piccole perle che ti fanno entrare in quello stimolante clima culturale della New York negli anni ’70 insieme ad artisti eterogenei come scultori, letterati, coreografi, registi o ti portano a scoprire l’influenza della world music fin nelle radici, ma quella vera della tradizione, come quella indiana, messicana o africana mediante la collaborazione diretta e senza schermi né filtri.
Disarmante e generoso grande uomo che si mette a nudo e in discussione come farebbe ogni giorno della sua vita, con estrema umiltà e voglia di indagare l’ignoto e il mistero legato a questa meravigliosa esistenza e alle sue infinite sfaccettature.

“E’ chiaro che ciascuno di noi è legato alla propria cultura. Comprendiamo il mondo a seconda di come abbiamo imparato a vederlo. Per questo diventiamo americani, o indiani, o eschimesi. Vediamo quel mondo perché è ciò che ci è stato instillato, perfino martellato, in testa fin da quando eravamo molto piccoli. Ma è anche possibile uscire da quel mondo.”

“D’altro canto, i pittori, i danzatori, i musicisti, i compositori e gli scultori vivono in due mondi. Nel mio caso, uno è il mondo ordinario e uno è il mondo della musica; abito entrambi simultaneamente. In quell’altro mondo usiamo linguaggi speciali: il linguaggio della musica, quello del movimento, quello dell’immagine, che possono esistere indipendentemente. Viviamo in questi mondi diversi e a volte non riusciamo neanche a vedere come siano collegati.”

Owlina Fullstop

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