Il secondo racconto è quello che mi ha colpito di più. Il protagonista è Albert, un giovane senza mezzi, violinista incredibilmente dotato. Un ricco aristocratico, colpito dall’eccezionale bravura dell’artista, generosamente si offre di fargli da mecenate. Ma Albert si dà completamente alla propria arte, i virtuosismi più eccelsi, quelli in cui il pubblico entra in estasi, trasportato dalla musica ad altissime vette, gli riescono solo quando è completamente ubriaco; la vita normale, borghese, lo ripugna, e senza timore si dedica all’autodistruzione. Non gli importa di minare la propria salute, in tal modo; perchè un artista, per Albert, non deve invecchiare. “Molte cose sono necessarie per l’arte, ma soprattutto ci vuole fuoco”. E il fuoco, nella vita, non è dei vecchi, nè dei borghesi o degli aristocratici con la pancia piena.
La felicità familiare (in qualche vecchia edizione italiana La felicità domestica, o la felicità coniugale) è la storia del matrimonio tra una giovane donna diciassettenne e un uomo trentaseienne, un vecchio amico di famiglia. Inizia tutto sommato come un matrimonio di amore da parte di lui e immensa cotta da parte di lei; lungo il corso della vicenda, e della propria vita, la giovane realizzerà che la convivenza coniugale e i sentimenti adulti sono cose molto più complesse di quanto immaginasse da prima delle nozze, e che hanno ben poco a che fare con le ingenue nozioni di “vita matrimoniale” che si immaginava quand’era ancora di fatto solamente una bambina. Tolstoj analizza il sentimento dell’amore e del matrimonio e ne propone il significato classico della propria produzione, di recipiente di felicità umana che si esplicita nella cura e nell’educazione dei figli, nel miglioramento della società e della specie umana.