“E nel pieno del nostro morire, mentre ci eleviamo al di sopra dell’organico solo per tornare vergognosamente a sprofondarvi, è un onore e un privilegio amare ciò che la Morte non tocca.”
Toma toma arrivo pure io, coi miei tempi, al Cardellino, che quando uscì due anni fa in Italia furoreggiò in questo gruppo. Avevo già letto i due romanzi precedenti di Donna Tartt, anche quelli bei tomoni di spessore; è un’autrice di culto ma anche un po’ di nicchia, scrive un libro ogni dieci anni circa, lei stessa ammette di aver provato a imporsi ritmi più veloci ma non ci si diverte. Il Cardellino le ha portato il Pulitzer per la fiction nel 2014, immeritatamente per alcuni; le sue opere, a parte il primo, folgorante Dio di illusioni, scritto mentre andava ancora all’Università con Bret Easton Ellis, non sono libri perfetti, anche se la scrittura è sempre impeccabile; ma soprattutto, per una certa ammuffita erudizione accademica, i suoi sono libri troppo di successo. La Tartt è uno strano esempio di scrittrice di massa di alta qualità, i suoi romanzi vendono milioni di copie e sono tradotti in tutto il mondo, eppure non la trovi sullo scaffale della casalinga di Voghera (a parte il mio, vabbè) o di Holt, Colorado.
Il Cardellino è la storia di formazione, o meglio del processo di sviluppo arrestato brutalmente di Theo, un ragazzino di New York, dove vive con la madre, bellissima, colta, intelligente, amatissima. Il padre, alcolista, li ha abbandonati da tempo. Uno dei temi ricorrenti del libro è l’amore per l’arte, e quello che l’arte porta a significare nelle vite umane: e comincia con l’arte questa storia, al MET di New York, dove Theo e la mamma, studiosa e appassionata di dipinti, passano qualche ora in una piovosa mattinata di primavera. All’improvviso, la tragedia: un attentato, bombe che esplodono, il buio. Theo emerge dai detriti con i timpani sfondati e quasi accecato dal fumo, stordito ma illeso; confusamente, si avvia verso casa dove è certo troverà la madre ad aspettarlo, e si porta via un piccolo dipinto sbalzato fuori dalla cornice nell’esplosione, un’opera di un maestro fiammingo che la madre stava ammirando prima della devastazione, Il Cardellino di Carel Fabritius, allievo di Rembrandt. La madre, ovviamente, non è casa ad aspettarlo, e non tornerà mai più. Theo è l’unico sopravvissuto, insieme al Cardellino, e qui comincia la loro storia.
Una delle critiche costanti che ho trovato su questo libro riguarda innanzitutto la sua eccessiva lunghezza, 890 pagine circa. E’ vero, è molto lungo, e ci sono interi paragrafi se vogliamo fini a sè stessi: la Tartt è scrittrice di razza, e a tratti si autocompiace di esserlo. Qualche taglio non avrebbe nuociuto al libro nel suo complesso; è però anche vero che quasi mai, fino all’ultima sezione che inizia verso i tre quarti del romanzo, mi sono annoiata o ho desiderato di saltare paragrafi. Per lo stile di questa scrittrice, ogni dettaglio serve a formare l’insieme dei personaggi, della caratterizzazione, del contesto: è un’opera che vive di particolari, memorie, frasi, osservazioni, citazioni. Bisogna immergersi nella storia e lasciarsi andare, non è un libro che ti afferra e ti trascina dentro; e la scrittura è molto fluida, curata, sempre notevole, la pagine a volte volano letteralmente, piene come sono di decine di avvenimenti, riflessioni, ricordi che si incidono nella mente di chi legge. Spesso si trova accostato alla Tartt l’aggettivo dickensiano, e se lo si pensa nella sua accezione di scrittore di grandi sentimenti e meschinità, di creatore di immensi personaggi caratterizzati nel bene e nel male, di umane debolezze e empatia per il prossimo, certamente la Tartt non sfigura. Ci sono persone che entrano nella vita di Theo e per estensione nelle nostre, uscendo dalla pagina stampata: Hobie su tutte, un antiquario gentile, di una nobiltà d’animo che lo piazza senza sfigurare in mezzo ai grandi personaggi dell’800 letterario. E per lo stesso Theo, che negli anni cresce segnato dal suo lutto in maniera irrecuperabile, un ragazzino che impariamo ad amare, col quale soffriamo e per il quale speriamo in un futuro se non proprio radioso, almeno sereno, a ogni scelta sbagliata che fa, a ogni droga che prende, a ogni dipendenza da cui non si riscatta ci sentiamo delusi ma anche partecipi, siamo con lui sempre e comunque, come quando lo eravamo all’inizio con il suo terribile, straniante dolore. La Tartt riesce a creare un’empatia assoluta per questo derelitto residuo del ragazzino felice che era all’inizio, piccolo essere umano che corre incontro al suo orribile destino mano nella mano con la mamma.
Rimanendo su Dickens, c’è un elemento che manca nella Tartt, che non può essere considerato minore: è del tutto assente il grande lirismo di redenzione e riscatto, spesso auto-riscatto, che i grandi personaggi di Dickens portano nell’animo. David Copperfield, Oliver Twist, Pip di Grandi Speranze, lottano strenuamente contro le avversità e le ingiustizie che il destino bastardo riserva loro perchè vogliono diventare persone migliori, e prendono esempio da quegli adulti che li circondano che hanno una superiore moralità e intelligenza. In questo libro, l’esempio perfetto di un tale adulto sarebbe Hobie; ma Theo sempre, per tutta la sua vita, abbraccia consapevolmente -e immancabilmente – lo squallore, il decadimento, l’annullamento nelle droghe e nell’alcool. Il suo dolore, vero e autentico, quel tipo di dolore che è impossibile raccontare, eppure è sempre lì presente tra le pagine della Tartt, veicola un perenne senso di impotenza che ti stordisce, quella tristezza che sembra dirti “E’ inutile, indietro non si torna” che tutti quelli che hanno provato un lutto stretto conoscono. Dal momento della sua perdita, Theo è annientato, e non cerca riscatto, o redenzione; e in questo senso, chi aspira a un’elevazione di sentimenti dickensiana, verrà deluso.
Quello che secondo la Tartt può portare redenzione, o ispirare a una superiore forma di spiritualità, è l’arte. Tutto il libro ne è pervaso, in ogni sua forma: pittura, disegno, grafica, architettura, scultura, musica dalla classica alla contemporanea, raccolte museali e mostre, cinematografia, letteratura di vari Paesi, e persino la raffinata arte del restauro e del culto degli oggetti antichi. Ci sono profonde riflessioni sul conforto che un’opera d’arte può portare a un animo sensibile, contrastando le brutture e l’ingiustizia che tutti, quotidianamente, dobbiamo affrontare nella vita. Il senso del destino, la casualità degli avvenimenti che troviamo sul nostro cammino, i dubbi sull’esistenza o meno di uno schema prestabilito, la solitudine e i suoi mostri, tutto si inchina di fronte alla grande funzione dell’arte nella vita di ogni individuo, che sia essa espressa dall’opera di pittori, musicisti, artisti di ogni genere, sia essa articolata dall’abilità manuale dei restauratori che sono in grado di preservare quei manufatti che conservano in sé centinaia di anni di storia, e di storie umane.
Alla fine, in tutta onestà, credo che sia un libro che vale la pena di leggere, se ci sono alcuni requisiti: tempo e voglia di immergersi in una narrazione lunga e a volte antica, a tratti noiosa e improbabile, quasi sempre superba; e nessun pregiudizio verso un giro di trama veramente infelice nelle ultime 200 pagine, riscattato da un capitolo di riflessioni finali. Non posso dire di ritenerlo un capolavoro, ma è sicuramente un libro che nonostante la sua mole si legge con piacere, per il puro amore della lettura. Ho sottolineato frasi e paragrafi, mi sono immersa completamente in molte pagine, sono entrata senza vergogna nella vita del protagonista, messo a nudo senza filtri nelle sue ossessioni e nella sua solitudine, custode di un segreto inconfessabile, perseguitato da fantasmi che non riesce ad allontanare. Una volta terminato, a causa di quella certa caduta di stile e trama nelle ultime duecento pagine cui accennavo, non posso dire sia un’opera che mi ha lasciato senza fiato dalla commozione o del tutto in pace con me stessa o desiderosa di rileggerlo immediatamente come mi succede coi libri che più amo. Ma è un bel romanzo ed è stato un gran viaggio, sicuramente non perfetto ma sono contenta di averlo fatto, e molte cose mi rimarranno di Theo e del suo strano, confuso, umanissimo mondo: basta questo, per me.
Lorenza Inquisition
Hobie rise. “E che c’è da dire? I grandi dipinti, la gente accorre a frotte a vederli, attirano folle, vengono riprodotti incessantemente su tazze da caffè e tappetini da mouse e ovunque possa piacere. E chiunque, e mi ci metto pure io tra questi, può passare un’intera felice esistenza di visite a musei dove girelli attorno godendoti il tutto, e poi esci e ti gusti un bel pranzo. Ma se un dipinto davvero ti tocca il cuore, e cambia il modo in cui vedi le cose, e come pensi, e come senti, non è perchè hai pensato:”Oh amo questo dipinto perchè è universale!” o “Amo questo quadro perchè parla a tutta l’umanità!”. No. Non è questo il motivo per cui qualcuno ama veramente un pezzo artistico. E’ per quel bisbiglio segreto in un vicoletto. Pssst, tu. Hey ragazzino. Sì tu, dico a te. E’ un colpo al cuore individuale. E’ il tuo sogno, è il sogno di Welty, è il sogno di Vermeer. Tu vedi un dipinto, io guardo lo stesso quadro ma ne vedo un altro, il catalogo della mostra ne mette un altro dettaglio ancora, la signora che compra la cartolina al negozio del museo ci vede qualcos’altro, e non stiamo neanche parlando di gente separata da intere epoche temporali, quattrocento anni prima di noi, quattrocento anni dopo che non ci saremo più, quel quadro non parlerà a nessun altro come ha parlato a te, e peraltro la stragrande maggiornaza della gente non ne sarà magari neanche toccata nel profondo, ma un vero, grande dipinto possiede un fascino fluido abbastanza da inserirsi nella mente e nel cuore attraverso ogni tipo di angolo possibile, in modi che sono unici e speciali. Tuo, tuo, sono stato dipinto per te.