Miracle in the Andes: 72 Days on the Mountain and My Long Trek Home – Nando Parrado

“Nando, I want you to remember, even in this place, our lives have meaning. Our suffering is not for nothing. Even if we are trapped here forever, we can love our families, and God, and each other as long as we live. Even in this place, our lives are worth living.”

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Vagando di disastro montano in disastro montano (https://cinquantalibri.com/2015/11/09/into-thin-air-jon-krakauer/) mi sono avvicinata alla terribile vicenda della catastrofe aerea sulle Ande del 1972, ma sì, lo sapete quale, quella del cannibalismo. Spazzo via subito i dubbi e i pruriti dicendo che questo libro per me è molto bello, molto emozionante e sono scoppiata a piangere alla fine come una mozzarella. Sì, il taboo c’è e se ne parla, ovviamente; ma non è il punto fondamentale di nulla: è chiaro, il giornalismo sensazionalista ha avuto giornate campali su questa vicenda, tant’è vero che ancora oggi, quarantatrè anni dopo, se senti disastro aereo sulle Ande associ immediatamente il pensiero al cannibalismo. Ma c’è molto altro in quella tragica storia, e sono contenta di averne letto, adesso, perchè è triste che per il mondo tutto quello che rimane nella memoria collettiva è che i vivi decisero di non morire di fame cibandosi dei cadaveri dei loro compagni morti.

Questo libro è scritto da quello che penso possa essere definito il vero eroe della vicenda, Nando Parrado, l’unico che sin dall’inizio espresse il desiderio di provare ad andare in cerca di aiuto, e che infine percorse con un amico la Cordigliera tra ghiacciai e crepacci, in condizioni inimmaginabili, camminando per una settimana sulla neve a oltre 4.000 metri, in jeans e maglione e scarponcini da rugby che perdevano i pezzi, scalando una montagna a mani nude per arrivare ad allertare i soccorsi, irrevocabilmente deciso a raggiungere la salvezza o a morire nel tentativo.

Riassumo brevemente la storia per fare qualche riflessione: l’aereo che si schiantò era un piccolo charter, affittato da una squadra di rugby giovanile di Montevideo. I 45 passeggeri si conoscevano tutti, e i sopravvissuti all’impatto erano amici e compagni di squadra, alcuni addirittura compagni anche di scuola dalle elementari; nel momento in cui si ritrovarono sperduti in cima a una montagna accanto a una fusoliera semi distrutta, rientrarono quasi inconsciamente nei ruoli della squadra. E quindi il capitano e i due più anziani si occuparono di organizzare le giornate, stabilendo turni di lavoro per pulire e assistere i feriti, per sciogliere la neve e procurare acqua, per cercare tra le valigie e i rottami qualsiasi cosa potesse risultare utile, i più giovani e i subalterni relativamente sereni perchè qualcuno pareva sapesse cosa fare. I primi giorni si affrontarono con cauto ottimismo, limitatamente alla situazione disperata e al fatto di aver visto morire molti amici: si era certi che i soccorsi sarebbero arrivati molto presto. Poi le giornate di attesa cominciarono a diventare settimane, alcuni feriti morirono per le cure inadeguate e il freddo inimmaginabile, la disperazione iniziò a farsi lentamente strada. Pure, proprio per il fatto che erano una squadra di amici, la situazione non si deteriorò in lotte intestine, rimasero compatti a fare fronte comune, cementando il sentimento di Ne usciremo insieme, o non ce la faremo affatto. Fossero stati un gruppo di estranei, la paranoia e l’individualismo -almeno all’inizio- avrebbero prevalso, con conseguenze probabilmente fatali.  Così invece nessuno mise in discussione il capitano quando dietro suggerimento di uno studente di medicina cominciò a razionare il cibo già dai primi momenti; non c’era nessuna fonte di sostentamento esterno presente su quella montagna, non animali, nè insetti, nemmeno erba. C’erano solo rocce, neve, ghiaccio, e la fusoliera. Provarono addirittura a mangiare i bagagli in pelle e le cinture, ma erano trattati con componenti chimici e non edibili. E quando fu divorata l’ultima ultimissima porzione di cibo presente, la scelta fu quasi semplice, nella sua drammaticità: c’era una sola cosa da mangiare per tenersi in vita, e se non si mangiava quella cosa, si moriva. Punto. Avevano tutti familiari e una vita che li attendeva fuori di lì, erano giovani, e nessuno voleva morire lassù in un mondo alieno di neve e ghiaccio: anche se la scelta era orribile, nessuno si rifiutò, almeno inizialmente, di mangiare i cadaveri dei loro compagni morti; in fondo, come spiega il capitano ai più riluttanti: «I nostri amici non hanno più bisogno dei loro corpi. Noi sì».

Dopo settimane di tormenti, di notte stesi gli uni sugli altri in quel che restava della carlinga per resistere ai meno 40 gradi della implacabile temperatura andina, di giorno il sole a picco che spaccava le labbra, i volti gonfati da enormi pustole, l’altitudine che toglieva il respiro, gli sventurati dovettero affrontare un’ulteriore tragedia, una improvvisa valanga che uccise 8 componenti del gruppo, tra cui il capitano. Ma il peggio era in fondo avvenuto qualche mattina prima, quando uno di loro era riuscito ad allacciare i fili di una radiolina a transistor, captando miracolosamente un giornale radio cileno che annunciava come le operazioni di ricerca fossero state ufficialmente chiuse: troppo vasto il territorio da esplorare, troppo pericoloso per gli aerei volare a bassa quota sulla Cordigliera in inverno, troppo tardi, infine, per sperare che ci fosse qualche sopravvissuto. Per il resto del mondo tutti loro erano ormai definitivamente morti.

In questo momento, mentre il capitano che aveva sempre confortato tutti mostrandosi fiducioso nell’arrivo dei soccorsi cedeva per la prima volta alla disperazione, Nando Parrado pensò al padre, che su quell’aereo maledetto aveva la moglie e due figli. Tutti i giovani presenti sul volo viaggiavano da soli, le loro famiglie e fidanzate a casa; Nando era l’unico ad aver sofferto la tragica perdita di due familiari, la madre e la sorellina, che avevano deciso di partecipare alla gita con la squadra. Questo lutto terribile fu una delle cose che gli diede la forza di andare avanti, paradossalmente; non riusciva a non pensare al padre, rimasto solo a casa: «Lo vidi chiaramente rigirarsi nel suo letto, abbacinato dall’inimmaginabile perdita. E mi si ruppe il cuore dalla pena. Sono vivo, gli sussurrai. Sono vivo». Fu allora che dentro di lui prese forma l’idea folle di scalare la montagna che li sovrastava, così alta da dare il torcicollo solo a guardarla: si sarebbe spinto verso ovest, dove stimava dovessero aprirsi le vallate del Cile, e sarebbe tornato a casa. Da quel momento, ogni sua energia fu divorata da un pensiero ossessivo: «A ovest c’è il Cile». Ma dove trovare la forza, come proteggersi dall’assideramento notturno, non avendo nulla che possa servire da riparo? La soluzione arrivò con un piccolo colpo di fortuna, invero uno dei pochi di questa disastrosa vicenda: durante una ricognizione venne ritrovata la coda dell’aereo, e staccando vari strati del materiale isolante fuoriuscito nell’impatto, i ragazzi si accorsero che davvero coprendosene il freddo non si sentiva quasi. Cucendo quindi con pazienza certosina una coperta che poi ripiegarono in due in modo da formare un sacco a pelo, piano piano e dolorosamente, utilizzando il kit di cucito trovato in una delle borsette, Nando e il compagno di viaggio prescelto per l’impresa si trovarono all’improvviso con una possibilità concreta di riuscita, e partirono, non senza vari indugi: lasciare dopo due mesi la fusoliera, con il suo orribile letto di ossa spolpate nelle retrovie, con alcuni ragazzi che si stavano lasciando morire di malnutrizione e disperazione, era comunque dura, nonostante tutto. Affrontare l’ignoto era ancora più spaventoso del presente, perchè si sa, la natura umana a tutto si abitua. Ma altri quattro ragazzi morirono in quei giorni per il freddo e le ferite andate in cancrena, non si poteva più rimandare, e quindi una mattina di sole, a due mesi dallo schianto, Nando e il suo amico partirono. Dopo sei ore di ascesa con la neve sprofondati nella nbeve fino ai fianchi, la montagna non pareva più vicina. Le scarpe da rugby inzuppate gelate non appena calato il sole, la notte passata senza sonno in un avvallamento del ghiacciaio. Ci misero tre giorni solo per arrivare in cima, a un’altitudine simile a quella del Monte Bianco, semiassiderati e stremati, e Nando, giunto infine alla vetta agognata, guardò oltre l’orizzonte solo per capire  che i calcoli che avevano fatto sulla loro posizione erano stati spettacolarmente errati: non si trovavano al limite occidentale delle Ande, il loro aereo era caduto nel mezzo della Cordigliera. “Non ricordo di aver provato alcuna gioia. Se ci fu, svanì non appena mi guardai attorno. L’orizzonte era affollato in ogni direzione di montagne, tutte ripide e proibitive come quella appena conquistata”.

Ma al di là delle montagne, Nando si dice, c’è suo padre. «Ero sicuro che non l’avrei più visto, ma il suo ricordo mi riempì di gioia. La paura se ne andò: non avrei lasciato che la morte mi controllasse». E allora riparte, perché deve andare, continuare a camminare, morire camminando, se necessario. Ma indietro non si può più tornare, in quella fusoliera c’è ormai la morte certa in attesa. Il Cile è sempre a ovest.

E camminano per una settimana intera, dalla prima cresta scorgono una valle, a più di dieci chilometri da loro: è in quella direzione che procedono, con la speranza di incrociare il corso di un fiume che li porti verso centri abitati più velocemente. Camminano senza mai arrendersi, e alla fine, stremati, denutriti, con scorbuto e piaghe di ogni tipo, arrivarono ad allertare i soccorsi, e alle loro famiglie.

Questo libro mi è piaciuto tanto perchè, soprattutto, è la storia di uno straordinario ragazzo qualunque, un giovanotto che non era il capitano, o il caposcuola, o il più bravo degli studenti, non aveva particolare disposizione al comando o all’eroismo, non si considerava coraggioso e non era mai stato temerario. Eppure, trovò dentro di sè un senso di amore superiore, infinito, che sovrastava le brutture e lo strazio di quei mesi orribili per concretizzarsi nel desiderio di riabbracciare la sua famiglia, rivedere suo padre, non rendere vana la propria pur breve esistenza morendo in quel luogo alieno senza neanche aver provato a vincere. Mi è piaciuto perchè il suo racconto quasi candido sulle liti, le discussioni, le preghiere e le riflessioni di quei ragazzi in quei due mesi orrendi riportano la vicenda a un lato umano, cameratesco, di amicizia che persino di fronte alla morte non cede alla bestialità, nonostante sia successo quello che tutti sappiamo, e mi ha lasciato comunque un senso di grande speranza. Bello.

Io l’ho letto in inglese, ma ne esiste una versione anche in italiano: Fernando Parrado e Rause Vince, Settantadue giorni. La vera storia dei sopravvissuti delle Ande e la mia lotta per tornare, Piemme, 2006.

Lorenza Inquisition

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