Kate Manning, Una levatrice a New York

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E’ una storia liberamente ispirata alla vita di Madame Restell, una levatrice vissuta nel 1800 a New York diventata famosa perché praticava illegalmente l’aborto.
Incontriamo la prima volta Annie, la protagonista, quando ha 12 anni e insieme alla sorella e al fratellino più piccoli chiede l’elemosina sui marciapiedi di New York. Annie condivide la sorte di altre migliaia di piccoli disperati, bimbi abbandonati, figli di famiglie numerosissime, figli di prostitute che nell’800 popolavano la parte più a sud di Ny, vivendo per strada, cercando cibo tra i rifiuti, rubacchiando e chiedendo l’elemosina. Si calcola che fossero circa 35.000 bambini. Portati via alla madre, gravemente ammalata, i tre bambini finiscono su un treno per gli orfani, un convoglio che porta centinaia di creature verso Ovest, dove verranno venduti a famiglie: i più fortunati per diventati figli amati, la maggioranza per diventare animali da lavoro nelle fattorie, schiavi comprati a buon prezzo. “Bambini rimasti senza nessuno. Tutti quelli che desiderano acquistare un bambino sono pregati di chiedere”, dice il manifesto che pubblicizza l’arrivo del treno.

Tornata a Ny Annie diventerà dopo varie peripezie l’assistente di una levatrice fino a che, portando costantemente nel cuore il ricordo dei fratelli lontani e della madre morta di parto davanti ai suoi occhi, Annie inizierà lei stessa la sua carriera di levatrice. Insieme al marito intraprende una redditizia attività di vendita per corrispondenza di Rimedi Femminili, molti dei quali sono contraccettivi, la sua bravura come levatrice le porterà una nutrita clientela e, piano piano, porterà alla sua porta un numero sempre crescente di donne che le chiedono di interrompere la gravidanza che hanno in corso. E lei “le sistema” attirandosi le benedizioni di tante donne e le maledizioni di una società che vede nell’aborto l’opera del Diavolo, fino all’accanimento di un funzionario dell’Associazione per la Soppressione del Vizio, un ipocrita inquisitore che si vanta di aver spinto 15 persone da lui perseguitate a commettere suicidio.
È un libro molto crudo che descrive nei dettagli la sofferenza di un raschiamento eseguito con la sola anestesia di un bicchiere di whiskey e un pezzo di cuoio da mordere e mille altri particolari di un parto o di un aborto, fine agli strumenti utilizzati da donne disperate per procurarsi da sole un’interruzione di gravidanza e, in molti casi, la loro stessa morte.
Ma quello che racconta in modo molto efficace è soprattutto la disperazione di donne che non conoscono alternative alla gravidanza, che non hanno la possibilità di poterla evitare se vogliono o di interromperla se lo ritengono giusto perché il mondo le etichetterebbe automaticamente come sgualdrine. Il dolore di giovani donne di 25 anni con 5 o 6 figli, disperate e sfiancate dall’ennesima gravidanza che non possono evitare, donne messa incinta da uomini senza scrupoli che le abbandonano al loro destino, donne vittime di stupri, donne che saranno chiamate sgualdrine o criminali in una società che addossa a loro tutta la colpa, sempre e in qualsiasi caso. E’ il 1800, le donne devono ubbidire agli uomini, non hanno diritti e non hanno la minima possibilità di scegliere. Gli uomini non hanno la minima responsabilità.

Il ritratto che viene fatto di Annie non è del tutto positivo. Non è solo quello dell’eroina dura e pura motivata da alti ideali. Lei agisce anche perché e’ spinta dalla rabbia, dal bisogno di riscattare un’infanzia nell’inferno della miseria, dall’urgenza di accumulare denaro.
Però il rispetto che lei prova per ogni donna che bussa dolorante e impaurita alla sua porta è fuori discussione. Il rispetto per il loro dolore, la loro angoscia e l’assoluta mancanza di giudizio quale che sia la decisione presa dalle sue clienti rappresentano le parti più toccanti e più vere del libro e il reale messaggio di questa storia. Lei non fa propaganda all’aborto, ma approfitta di ogni occasione per fa sì che le donne che incontra sappiano dell’esistenza di metodi anticoncezionali (anche la distribuzione di materiale informativo è illegale nel 1860) perché possano avere la possibilità di scegliere.

È un libro a tinte forti, dai colori scuri. Secondo me soffre molto della traduzione. Ho l’impressione che l’originale, soprattutto nella prima parte, utilizzi molto lo slang dei quartieri poveri popolati da irlandesi. Questo linguaggio non è reso benissimo e alcuni dialoghi suonano un po’ strani, malgrado la ricostruzione storica sia particolarmente accurata e disegni in maniera molto vivida e ricca di sfumature la New York ottocentesca. Il titolo non è un granché.
Però è anche un libro che dà anche un’idea molto chiara, seppur romanzata, di dove siano iniziate lotte che hanno portato le donne della mia generazione, quella prima e quelle dopo, a poter decidere su un argomento che le riguarda completamente e del quale, per secoli, sono state considerate solo strumento. Quelle lotte che ci hanno portato a pensare, o avrebbero dovuto farlo, che quando si parla di gravidanza ogni scelta merita rispetto.
In ogni caso, al di là dei difetti di questo libro, quando ho iniziato a leggere non sono più riuscita a fermarmi.

“Ho avuto sette figli ma soltanto tre femmine sono nate vive e adesso ne aspetto un altro. Sono già mortalmente malata. Ho rischiato di morire, l’anno scorso, quando il nostro povero maschietto non è sopravvissuto. Eppure mio marito vuole terribilmente un figlio maschio e insiste che io continui a tentare, anche se ne ho già perduti quattro e probabilmente mi giocherei del tutto la salute, se lo facessi. E’ un peccato, so che è un peccato. Tuttavia…….signora Jones, potete aiutarmi?”

Anna LittleMax