*Feci un respiro profondo e ascoltai il mio vecchio cuore; sono io, sono io, sono io*

Dipende anche da come l’autunno ti si accovaccia addosso. Dipende dai fili, quelli che ti tengono appesa ai giorni, anche quelli che scappano e nemmeno ti sei ricordata ti dar loro un nomignolo. Dipende, poi, dalle circostanze, dalla grattugia dei minuti, dal caso, da come ha deciso di pettinarsi in quel periodo lì. Dipende dalle saccocce della tua memoria intima: quando le vuoti, se mai le vuoti, se ne hai voglia di vuotarle anche solo per guardare dentro il loro eco un paio di minuti. Dipende da un sacco di cose se un libro ti entra, se ti sfiora appena, se non ti tocca nemmeno. Bene, questo libro, in questo preciso momento della vita, mi ha attraversata. Non ha lasciato una cicatrice, ma ha aperto dei varchi rispetto ai colori che ricordavo ripensando a certe foto emotive. Non mi ha ferita, nonostante in alcuni momenti scalpiti incontrollato e con ferocia. Questo libro mi ha indovinata, non nella personalissima vicenda di cui vive, ma nelle pieghe che questa vicenda non ha nessuna voglia di nascondere. Guardare in faccia odio e amore e fragilità e impotenze non sempre è costruttivo. In questo caso per me lo è stato. E se volevo bene alla nudità della scrittura di questa donna, ora voglio ancor più bene alla nudità della sua visione. E nudità vuole dire totale assenza di compromesso fra ciò che è garbato osare e ciò che invece è vita, quella di nessun garbo e poca, pochissima riconoscenza.
rob pulce molteni
DESCRIZIONE
La vicenda prende avvio nell’estate del ’53; in una New York, simbolicamente opprimente per l’afa estiva, dove l’io narrante, Esther Greenwood, studentessa di college non ancora ventenne, fa praticantato presso una rivista femminile.
Come si apprenderà nel corso della successiva narrazione, ad attenderla alla fine di questa esperienza, Esther ha una madre, vedova sin da quando Esther era piccola, e una storia, in fase calante, con Buddy, classico american boy, carino, atletico, diplomato a Yale e futuro medico.
Con queste premesse, l’opportunità di lavoro e di libertà offerta dalla rivista, la scintillante vita modaiola con la quale Esther entra in contatto, insieme alla prospettiva di ammissione a un corso di scrittura, dovrebbero rappresentare un apice esaltante nella vita di questa giovane provinciale del Massachusetts. In realtà, sarà proprio a partire da qui che avrà inizio la disgregazione. L’incompatibilità tra ciò che “sente” di essere e ciò che invece “dovrebbe” essere secondo i convenzionali parametri sociali le si rivela, durante questa parentesi newyorkese, in tutta la sua drammaticità.
Interrompendo il praticantato, ritornerà a casa, ripiombando nel clima convenzionale e conflittuale di Boston dove, assorbita dalla depressione, si scoprirà incapace di qualunque azione presente e di qualsiasi progetto futuro. La discesa sarà inarrestabile fino al tentativo di suicidio e alla successiva, faticosa risalita verso la “normalità”.
Luciana Viarengo, Il male di scrivere
La campana di vetro (The Bell Jar) è l’unico romanzo di Sylvia Plath, originariamente pubblicato sotto lo pseudonimo di Victoria Lucas nel 1963. Il romanzo è semi-autobiografico, con i nomi di luoghi e persone cambiati per evitare oltraggi. Tuttavia, dopo il suicidio di Sylvia, il romanzo fu pubblicato con il suo vero nome, il che causò grande offesa. Una donna ritratta nel libro come “Joan” vinse il processo che riconobbe che il romanzo la etichettava ingiustamente come omosessuale.
Questo libro è spesso considerato un roman à clef, per la discesa verso la pazzia della protagonista parallela alle esperienze personali dell’autrice, affetta da grave psicosi maniaco-depressiva.
Mi piace:
Mi piace Caricamento...