Elliott Smith e il grande nulla – Benjamin Nugent #ElliottSmith #BenjaminNugent

Traduttore: A. Mioni
Collana:Arcana musica
Anno edizione:2005

“Ha sempre voluto essere sincero e reale; non era un ipocrita. Era davvero un puro artista. E quando vivi con quel tipo di purezza intellettuale, è davvero difficile relazionarsi al resto del mondo”.

E’ un percorso doloroso quello nel quale ci conduce Nugent, attraverso la parabola discendente affrontata da Steven Paul Smith, in arte Elliott Smith, nella sua breve ma intensissima vita da rock star mai pienamente vissuta e accettata come tale. Eppure Smith sembra avere avuto le idee chiare sin dall’inizio, pur precipitando inevitabilmente nel vortice dell’abuso di droghe di vario tipo, lontano dai riflettori e soprattutto dagli amici che a poco poco sono spariti dalla sua vita, lasciando alimentare quel vuoto – quel nulla del titolo – che l’ha risucchiato fino al misterioso suicidio, mai veramente provato né stabilito.

C’è ancora molto da scoprire su un artista tanto dotato quanto riservato e fuori dagli schemi. Mancano all’appello molte testimonianze chiave e predomina un alone fin troppo fitto di mistero intorno al suo decesso, ma il merito di questa prima biografia è quanto meno quello dell’aver portato alla luce una sensibilità e un’intelligenza fuori dal comune attraverso i racconti di chi ha condiviso con lui esperienze di varia natura, ma e ancor più direttamente dalla lettura e dall’analisi dei suoi stessi testi, parole e tessuti musicali.

Inevitabile chiedersi: “perchè?”. Sarebbe troppo facile trincerarsi dietro alla banale spiegazione di un music business spietato che lo abbia ingurgitato perché troppo debole e sensibile. In parte potrebbe essere condivisibile, ma la ragione primaria probabilmente affonda le sue radici nell’inabilità di affrontare i propri demoni al fine di fronteggiare baldanzosamente un mondo che lascia poco spazio alla delicatezza di un animo alla ricerca della perfezione nell’arte. E la deprimente sensazione generale è quella di un immenso spreco: lo spreco di una vita umana, in primis e quello della creazione artistica che avrebbe potuto arricchire l’umanità in seconda istanza.

“Because for me, the sound of the song is the same thing as the song itself, you know? Both ways are cool, totally … but when I make up stuff, I can’t imagine it in a lot of different settings.”

Owlina Fullstop

everybody cares, everybody understands
yes everybody cares about you
yeah and whether or not you want them to
it’s a chemical embrace that kicks you in the head
to a pure synthetic sympathy that infuriates you totally
and a quiet lie that makes you wanna scream and shout
so here i lay dreaming looking at the brilliant sun
raining it’s guiding light upon everyone…

Le ore -Michael Cunningham #LeOre #MichaelCunningham #recensione

“È invecchiata in maniera drammatica, proprio quest’anno, come se uno strato d’aria fosse filtrato da sotto la sua pelle. Adesso è indurita, stanca. Ha cominciato a sembrare scolpita nel marmo grigio bianco, molto poroso. È ancora regale, ancora squisitamente costruita, ancora in possesso della sua formidabile radiosità lunare, ma improvvisamente non è più bella.”

(Premio Pulitzer 1999)

Non mi sento degna di scrivere un commento, una recensione, o come la si voglia chiamare. Non pensavo nemmeno che fosse possibile andare tanto al di là, superare con questa determinazione e delicatezza qualsiasi confine psicologico e umano.
Los Angeles, anni 50: Laura Brown finge di essere una perfetta madre per il piccolo Richard, un’impeccabile custode del focolare domestico, e una pronta, amorevole moglie per il marito Dan, reduce di guerra e onesto compagno. Ma lei non è una madre, non è una moglie; non è una domestica. Tutta la facciata è tenuta in piedi con uno sforzo recitativo malcelato, in un continuo sdoppiamento in cui la realtà è soltanto superficiale, e più che vissuta, non può che essere letta. Come una spettatrice obbediente, che non partecipa. E la sensibilità letteraria, la fragilità psicologica e il continuo reflusso nella propria dimensione egocentrica, porteranno questa donna a scivolare lentamente verso l’inevitabile.
Richmond, periferia di Londra, 1923: Michael Cunningham ci regala il cameo stilisticamente perfetto di una giornata in casa Woolf, rendendo con squisita sensibilità la tenera intesa coniugale tra Virginia e Leonard, i piccoli dissapori domestici, una visita della sorella Vanessa per una tazza di thè e la tranquilla morte su un letto di rose di questa vita forzatamente serena, forzatamente ordinaria. Virginia Woolf è stata portata in periferia nella speranza di un risanamento, di un riposo dalle emicranie che le colonizzano il cranio come un virus, facendo pulsare il mondo intorno a lei di un’ ”infettante lucentezza”, una luce intrisa di un dolore insopportabile, troppo vivido per non uscirne coperta di sangue. Ma Virginia sente il richiamo della vita, del cuore caotico e pulsante della città, dove le emozioni e le sensazioni si accavallano, e l’emicrania sta in agguato. Vuole vivere, vuole soffrire, piuttosto che, tranquillamente, morire.
New York, fine del XX secolo: Clarissa Vaughan, una bella donna di mezza età appena al limite del confine con il declino della vita, assapora lo splendore fresco di una azzurra mattina di giugno, in cui esce dal portone per andare a comprare le rose. Darà una festa per il suo antico amante e intimo amico Richard, malato di AIDS terminale, poeta visionario e ormai consumato dalla follia. L’attesa della festa, così traboccante di splendore, di miseria e vita, si trasformerà in tragedia. Ciascuno dei tre momenti temporali si risolve in un singolo giorno, e tutti e tre abbracciano il filo rosso de La Signora Dalloway, romanzo che Virginia Woolf nel 1923 ha appena cominciato a scrivere e la cui trama, che Virginia immagina attraverso le sue folgorazioni domestiche – accanto a un piccolo tordo morente, in un bacio affamato e pieno di vita appena posato sulle labbra della sorella, e davanti alla finestra, tra i rettangoli luce lunare che vengono cancellati sul tavolo dal ramo appena fuori di un albero cadenzato-, anticipa e rivela in gioco di specchi la vicenda di tutti e tre i personaggi di Cunningham . E infine il Richard di Clarissa, che è anche quel “qualcuno dal corpo forte ma dalla mente fragile; qualcuno con un tocco di genio, di poesia, investito dalle ruote del mondo, dalla guerra e dal governo, dai dottori; qualcuno che è, tecnicamente parlando, folle, perché vede significati dappertutto, sa che gli alberi sono esseri sensibili e che i passeri cantano in greco”, concepito dalla mente di Virginia, che si inserirà alla fine del romanzo in modo tragico e simbolico, chiudendo in un cerchio perfetto l’inizio.
Concludo dicendo che mentre lo leggevo sono rimasta scioccata da come Cunningham sia riuscito a penetrare, attraverso la Letteratura, le più intime sfumature psicologiche della sensibilità di queste donne, delle loro vite, dei loro pensieri, delle loro aspirazioni, dei loro fallimenti, e che lo abbia fatto con uno stile che mi sento di definire etereo, fatto di una serie di fotogrammi intatti e puri, e un omaggio va all’uso di metafore ricche e rigogliose, che hanno conferito luci più intense e ombre più spesse alla quotidianità di questa mattinata di giugno, rendendola per me indimenticabile.

“È gentile da parte tua dire così, ma è un po’ di tempo che lo sento, che si chiude intorno a me come la bocca di un fiorire gigantesco. Non è un’analogia peculiare? È così che sembra, però. Ha una certa inevitabilità vegetale. Pensa alle piante carnivore. Pensa ai kudzu capaci di soffocare una foresta. È una specie di progresso succoso, verde, rigoglioso. Che spinge verso…Bè, lo sai. Il silenzio verde. Non é buffo che anche adesso sia difficile dire la parola ‘morte’?”.

Giulia Casini