Signorina Cuorinfranti – Nathanael West #MissLonelyhearts #West

Nathanael West è stato uno scrittore americano attivo negli anni ’30, ebreo e marxista, scomparso a nemmeno quarant’anni in un incidente d’auto. Ammirato dai contemporanei W. H. Auden, Francis Scott Fitzgerald e Dorothy Parker, West fu uno dei primi critici del Sogno Americano, che dal suo punto di vista era piuttosto una Grande Illusione: individuò prima di molti il nesso tra malessere individuale e sociale, il falso mito dei sogni costruiti e venduti nella società dei consumi. Non fu però particolarmente famoso fino agli anni Cinquanta, quando in patria lo riscoprirono e ristamparono. E’ soprattutto apprezzato per il romanzo Il giorno della locusta (citato, tra l’altro, ne La svastica sul sole) amarissimo e spietato ritratto sull’alienazione e la disperazione di gente che negli anni ’30 vive ai margini della “fabbrica dei sogni” del cinema. Viene spesso descritto come il miglior romanzo mai scritto su Hollywood, un classico di culto in cui uno dei protagonisti si chiama Homer Simpson (eh sì).

Signorina Cuorinfranti (Miss Lonelyhearts, del 1933) è un romanzo breve di poco più di cento pagine, che inaugura un’idea poi ritrovata in una serie di altri libri e brillanti film di Hollywood: un giornalista squattrinato viene incaricato dal suo redattore, cinico e arrivista, di gestire la “posta del cuore” di un noto quotidiano, sotto lo pseudonimo di Signorina Cuorinfranti, appunto. In genere, questo motivo viene declinato nei toni del rosa o del giallo-rosa, nelle varie pellicole: ma West è uno scrittore realista, e sceglie un’angolatura diversa, vera, dolorosissima.

Ambientato durante la Grande Depressione, in una New York piuttosto povera e popolare, il romanzo si apre con il giornalista che gestisce la rubrica, sopraffatto da una realtà di vite degradate e allo sfascio: le lettere che gli arrivano non sono di piccole segretarie innamorate del loro direttore, o di simpatiche giovani spose che hanno qualche problema con la suocera. Le esistenze disperate di questa America, narrate spesso in maniera sgrammaticata nelle lettere che riceve, sono espresse in parole di ineguagliabile tristezza, di donne che si sono sposate vergini senza idea alcuna di cosa fosse il sesso e alla settima gravidanza, la salute minata, il corpo distrutto, si chiedono se si possa fare qualcosa per tenere lontano il marito (sono malata e ho paura perchè mica posso abortire, io sono cattolica e mio marito lui è tanto devoto); di mogli con mariti brutali e alcolizzati, di ragazzini che hanno assistito a una violenza sulla sorella disabile e non sanno se dirlo a mamma (perchè tanto darebbe la colpa a mia sorella e è capace di riempire Gracie di botte), di persone angosciate che hanno una sola via di sfogo nella vita, una sola persona con cui parlare: Miss Lonelyhearts. E’ lei la loro triste, solinga speranza, il loro scoglio, l’unico appiglio delle misere esistenze di Stanca-di-tutto, di Disperata, di Spalle-larghe, nomi desueti che forse ci fanno un poco sorridere, dietro i quali si celano realtà amarissime e drammi insopportabili.

E il giornalista (che in tutto il romanzo rimane solo con questo nome, non ha altra identità se non Miss Lonelyhearts) infatti, non sopporta: si immedesima in quelle vite e in quel dolore, non sa che rispondere, non sa aiutare, nemmeno sè stesso. Mentre tutta la redazione ride e non capisce la sua sofferenza, nè quella di chi ha scritto le lettere, egli viene travolto dallo strazio di cui queste sono intrise e precipita in una spirale di depressione in cui è costantemente preda di incubi, allucinazioni e, talvolta, raptus di violenza. L’alienazione lo porta al cinismo, e il cinismo all’autodistruzione.

Al di là delle persone che scrivono le lettere, West non spinge a provare empatia per i vari personaggi che lo animano, anzi crea una barriera di sconcerto e antipatia. Tutti i personaggi sono un guazzabuglio di perdenti, alienati, senza particolari qualità morali, assetati di vita e felicità e destinati a vedere i propri sogni infranti dallo spietato meccanismo che regola quel mondo che essi stessi hanno contribuito a creare. E’, ovviamente, un modo di mostrare le falle della società americana degli anni Trenta, un raccontare il lato indecoroso di una realtà all’apparenza dorata, il senso di impotenza, pratica ed emotiva, dell’innominato protagonista che si trova a fronteggiare una società in piena crisi economica e di valori.

“Forse posso farti capire. Cominciamo dall’inizio. Un uomo è assunto per dare consigli ai lettori di un giornale. Il lavoro è una trovata redazionale e tutto lo staff lo ritiene uno scherzo. L’uomo accetta con entusiasmo il lavoro, perché gli permette di curare una colonna di gossip, e comunque è stanco di fare il reporter. Anche lui pensa che il lavoro sia una burla, ma dopo diversi mesi questo aspetto della burla comincia a sfuggirgli. Egli vede che la maggior parte delle lettere sono suppliche che chiedono con un’umiltà assoluta un consiglio morale e spirituale – che sono espressioni inarticolate di una sofferenza autentica. Scopre anche che i corrispondenti lo prendono sul serio. E per la prima volta nella propria vita, è costretto a prendere in esame i valori con i quali vive. E questo esame dimostra che egli è la vittima dello scherzo e non il suo autore.”

Questo romanzo sulla solitudine umana ha però qualche difetto, non attrae per lo stile inconcludente e troppo grottesco, è dispersivo da seguire con un intreccio frammentario, schiacciato dagli incubi e deliri del protagonista, troppo fastidiosamente allegorico, per me.

Però, è una grande lettura, crudele, impietosa, amarissima; e il fatto che sia breve contribuisce a perdonarne i pochi difetti.

“Miss Lonelyhearts, Lei pensa che mi devo suicidare?

Distinti saluti, sua DISPERATA”

Lorenza Inquisition

Miss Lonelyhearts rappresenta il primo tentativo di sabotare i meccanismi compensatori messi in atto dalla società per imbrigliare e sfruttare le energie negative prodotte dalla pressione che essa stessa esercita quotidianamente sulle masse. La presunzione di controllare (traendone per di più profitto), anche la vita onirica collettiva, incanalandone le pulsioni in direzioni innocue e ben collaudate, viene analizzata e smascherata da West partendo da una sua manifestazione marginale: l’odierno surrogato povero della confessione costituito dalle rubriche di consigli ai lettori.
Riccardo Duranti nella postfazione all’edizione di e/o.

 

Cioccolata a colazione – Pamela Moore #pamelamoore #femminismo

Pamela Moore – Cioccolata a colazione

traduzione di Tommaso Giglio

collana: Oscar piccola biblioteca, Arnoldo Mondadori Editore.

Courtney pensò a ciò che le avevano ripetuto per tutta l’infanzia, quando la caricavano di responsabilità che una bambina non avrebbe mai dovuto avere: che “Era troppo piccola per conoscere certe realtà e che avrebbe dovuto restarne all’oscuro finchè lei stessa non avesse deciso di scendere dalla sua torre di sogno per calcare le bassure di Babele.”

In un pomeriggio nuvoloso di giugno del 1964 una donna di ventisette anni siede alla sua scrivania a Brooklyn Heights, New York. Suo marito, un avvocato in carriera, è al lavoro. Il figlio di nove mesi è nella sua stanzina, dorme. La donna scrive qualcosa sul suo diario, poi si alza, apre il ripostiglio e prende il fucile calibro 22 che ha regalato al marito per il compleanno. Torna alla scrivania, si siede, e si uccide sparandosi. Finisce così la vita di Pamela Moore, che dieci anni prima ha scritto uno dei best sellers più venduti -e criticati- del dopoguerra, quel suo Cioccolata a colazione che, tradotto ed esportato con immediato successo, causò all’editore italiano, Alberto Mondadori, una denuncia per oscenità dalla quale dovette difendersi in un lungo processo, durato quattro anni.

Il libro, un romanzo agile e con qualche contenuto scabroso (letto nel 2018 per la verità neanche poi particolarmente pruriginoso), appartiene a quell’esplosivo filone di tendenza negli anni ’50, inaugurato in Francia da Francoise Sagan con Bonjour tristesse: ragazze che parlano con disinvoltura della propria vita, del sesso, degli amori, delle inquietudini sentimentali e intellettuali. Come recitava una pubblicità dell’edizione italiana: “Il romanzo di una ragazza, ma non per ragazze”. La storia, scritta dalla Moore ad appena diciotto anni,  è incentrata attorno alla figura di Courtney, una quindicenne molto intelligente, prodotto di una certa buona società Wasp, come l’autrice, che trova sciapi e superficiali i propri coetanei e per questo molto sola e soggetta alla depressione. Pamela, come il suo alter-ego letterario, vive da sempre una vita disordinata e dolorosa, divisa in due dopo il divorzio dei genitori: spedita come un pacco postale avanti e indietro tra le due coste americane dall’età di dieci anni, alterna mesi in un esclusivo collegio privato della East Coast alle vacanze a Hollywood dove la madre consuma la sua carriera di famosa attrice, per finire, dopo il diploma, nel jet set newyorchese insieme agli altri giovani figli di ricchi genitori bianchi perennemente assenti dalle vite della progenie, in una serie ininterrotta di party interminabili, notti in bianco a gozzovigliare, sesso promiscuo e casuale, scandali, sigarette in ogni momento della giornata, e alcool in quantità indescrivibili. Courtney, nel libro, dopo una serie di eccessi, impronta la sua vita su una cauta nota di ripresa, mentre impara a navigare nel delicato territorio tra l’adolescenza e la maturità femminile; Pamela, purtroppo, non supererà mai la sua depressione, rimanendo fatalmente, nonostante la fama e le occasioni, terribilmente distruttiva e autodistruttiva.

Cioccolata a colazione ha un titolo in italiano fuorviante, perchè in lingua (Chocolates for breakfast) e nel libro, si fa riferimento a quelle mattine post sbornia in cui si ricomincia la sessione alcolica mangiando cioccolatini per la fame nevrotica, e bevendo champagne. Quel “cioccolata” è un poco ingannevole, con i suoi rimandi a una lettura da sciocchezzuole chicklit. E’ un romanzo che ho letto con piacere, scorrevole e a tratti profondo anche se, leggendolo sessant’anni dopo, non particolarmente memorabile per la scrittura: è un romanzo scritto da una diciottenne, e per certi versi si vede. Innegabile è comunque la modernità di certi temi affrontati in modo maturo e non irritante: in un’epoca in cui in America (e non solo) l’apice del successo personale femminile era il matrimonio, una nidiata di bambini e una casa dotata di tutti gli elettrodomestici, Courtney vive con la madre divorziata che si dà da fare per la propria carriera artistica, ammira sentimentalmente una professoressa di letteratura con la quale sente di avere più affinità elettive che con qualsiasi altra persona, si prende amanti con naturalezza senza minimamente pensare alla santità del matrimonio, ha una relazione con un bisessuale delle cui preferenze tutti parlano apertamente, affronta il tabù dell’omosessualità e del sesso, al quale le ragazze della sua epoca e del suo ceto sociale non devono pensare, con chiarezza e senza oscenità. L’angolo di America che Courtney/Pamela abita è un regno di ipocrisia, falsità, infelicità: notevole è la descrizione del party per la presentazione in società di una delle compagne di feste alcoliche, evento della massima importanza per le famiglie del jet set newyorchese, che consacrano con una pomposa cerimonia ufficiale la giovinezza e purezza di una ragazza la quale ha già “conosciuto” carnalmente quasi tutti gli invitati maschi del suo giro. Quello che poi mi ha colpito è che in fondo, per tutto il libro, i turbamenti e le fragilità esposte non sono peculiari di una sola, sfortunata ragazza: quello di cui il romanzo parla è lo specifico tormento esistenziale di una generazione di adolescenti – e poi giovani uomini ma soprattutto donne -infelici, e del loro misero arrabattarsi in una serie di inquietudini sentimentali, sessuali, umane che sfociano in una vacua esistenza che percepiscono senza speranza e inutile.

Pamela Moore ha scritto un libro sincero, anche profetico di un’America futura di gioventù bruciate tra alcolismo e droghe, dalla disperata promiscuità sessuale e profonda infelicità che troveremo descritta in tutte le successive generazioni di scrittori americani. Soprattutto, è un romanzo di formazione di una ragazza, che già all’inizio del libro ha capito che tutto nella vita sarebbe più facile se fosse nata uomo, che con disincanto sa che c’è un’età in cui la società condona comportamenti ma che la gente è sempre pronta a giudicare, che in certe vite così sciupate alla fine il solo calore umano che sconfina nel sentirsi accettati, semplicemente, è quello che fa andare avanti ancora un giorno, e poi un altro ancora.

“L’alcool le aveva sempre ricordato l’infanzia. Più avanti negli anni, quando le capitava di sentirsi troppo sola, le bastava ricorrere a un cocktail per trovarvi quel conforto che altre ragazze avrebbero invece trovato nell’odore del pranzo in cucina o nel rumore di un innaffiatoio automatico in giardino.”

Cioccolata a colazione nei primi anni di uscita registrò un incredibile successo di vendita, incantando milioni di lettori (l’edizione tascabile del libro nella sola estate del 1957 vendette più di 600.000 esemplari), diventando un fenomeno anche sociale: innumerevoli bambine nate in quegli anni furono battezzate Courtney, come la protagonista, scelta condivisa anche dalle madri di due delle più famose fra loro, Courtney Love e Courtney Cox, entrambe nate nel ’64.

Nel 1967, dopo la morte della scrittrice, il romanzo finì fuori stampa, e non fu mai più ripescato dall’oscurità dei libri dimenticati per ben 46 anni, per essere finalmente ripubblicato in America nel 2013.

Spero che non sia più accantonato. E’ un libro che sta onestamente alla pari sullo scaffale accanto alla contemporanea Plath, alla O’Brien, alla Sagan, a Mary McCarthy e a molte altre scrittrici. Non ha velleità di grande letteratura ma ha un suo valore storico, e parla della sincera ricerca di un modo più accettabile di essere giovani donne in un mondo maschilista che non prendeva nemmeno in considerazione questa esigenza, una ribellione che troverà una causa anche politica appena qualche anno dopo, con i primi scritti femministi di Gloria Steinem e Simone De Beauvoir.

Lorenza Inquisition