Camminare – Thomas Bernhard #Bernhard #Adelphi

È da una crisi che parte Camminare. Un uomo di nome Karrer impazzisce, anche in seguito al suicidio del suo amico Hollensteiner; il loro altro amico Oehler, che passeggiava con lui tutti i mercoledì, si vede costretto, per non impazzire a sua volta per il cambio di consuetudini, a chiedere di sostituirlo a un altro amico, e durante la passeggiata gli racconta di queste vicende, insieme a varie riflessioni sulla vita, la società, la filosofia, la verità, la famiglia.
Traduzione di Giovanna Agabio
Piccola Biblioteca Adelphi
“Tutte le frasi che vengono dette e che vengono pensate e in generale che esistono, sono al tempo stesso vere e al tempo stesso false, se si tratta di frasi vere.” (Camminare, p. 21).

Devo ammettere che mi ha messo davvero a dura prova la lettura di questo breve romanzo del 1971 di Thomas Bernhard, scrittore austriaco dalla breve e tormentatissima vita,pubblicato ora per la prima volta da Adelphi. Un Io narrante (verosimilmente l’autore stesso) riporta il lungo, ossessivo e ripetitivo monologo dell’amico Oehler che, a sua volta, racconta del loro comune amico Karrer finito in una clinica psichiatrica; e questo avviene durante l’incessante, ripetitivo, metodico camminare a giorni e ore fisse sempre lungo gli stessi viali della città. Un camminare generatore di un pensiero che vorrebbe essere razionale ma che si scontra continuamente con l’irrazionalità delle azioni dell’amico che hanno forse trovato una possibile genesi nel suicidio di un loro conoscente, il chimico Hollensteiner, vittima della cieca insensatezza della macchina statale. Ma l’esile trama è quasi marginale rispetto alla struttura stessa della narrazione, tutta retta dal discorso indiretto ininterrotto per l’intera durata del racconto e che immerge nell’incubo esistenziale dell’autore, segnato da un pessimismo irriducibile, descritto solo dalla sofferenza per l’insopportabile ottusità e l’insensatezza da cui si è circondati: solitudine, pazzia, suicidio.

“Tutta questa gente si racconta questa inconcepibile menzogna, dice Oehler, milioni di persone si raccontano questa menzogna. Vogliono avere la loro vita, dicono, lo dichiarano ogni giorno in pubblico, ma la verità è che non vogliono avere la loro vita. Nessuno vuole avere la sua vita, dice Oehler, ognuno si è fatto una ragione della sua vita, ma volerla avere questo no; una volta che ha la sua vita deve illudersi che la sua vita sia qualcosa per lui, ma in realtà e in verità per lui non è altro che orribile”.

Insomma, se cercate una lettura distensiva questo libro non fa per voi, ma se cercate un’esperienza di lettura allucinata e nello stesso tempo consapevole testimone della insensatezza in cui ciascuno è chiamato a confrontarsi se indossa gli occhiali che la scrittura di Bernhard ci propone, beh, come mi sono detto a lettura terminata, vale la pena di leggere questo scrittore anomalo, essenziale e terribile.

“L’arte di esistere contro i fatti, dice Oehler, è l’arte più difficile. Esistere contro i fatti significa esistere contro ciò che è insopportabile e contro ciò che è orribile, dice Oehler. Se noi non esistiamo costantemente contro, ma solo costantemente con i fatti, dice Oehler, andiamo a fondo in brevissimo tempo”.

Renato Graziano

Smile – Roddy Doyle #RoddyDoyle

Dublino, giorni nostri. Victor Forde, 54 anni, è da poco tornato a vivere nel quartiere popolare della sua infanzia. Alle spalle, un matrimonio fallito e una carriera di giornalista che non è mai decollata veramente. Ogni sera Victor affoga l’amarezza della sua vita al pub Donnelly’s, dove incontra Ed Fitzpatrick, che sostiene di essere un suo vecchio compagno di scuola. Victor non riesce a ricordare di averlo frequentato, i suoi modi rozzi e sfacciati lo infastidiscono, ma qualcosa in lui lo attira. Lo strano legame che si instaura tra Victor e Ed è l’occasione per raccontarsi il passato, vecchi episodi di quando frequentavano una scuola cattolica nella quale Victor, timido e introverso, era oggetto degli scherzi crudeli dei compagni e forse anche di qualcosa di peggio.

Di questo romanzo qualcuno ha già scritto tempo fa e mi resta perciò solo una piccola e precisa urgenza. Roddy Doyle è un autore che venero (sì, sì, non è che mi piace molto: lo venero proprio!) e ogni volta, ogni santissima volta, da decenni ormai, la sua lettura rappresenta per me un piacere, un privilegio, un’esperienza letteraria a trecentosessanta gradi e anche qualcosa di più, per varie ragioni non tutte pertinenti.
Ma stavolta, per un lungo tratto (metà romanzo, grosso modo, perché poi la storia va da un’altra parte) mi ha scalpellato addosso, dando una caratterizzazione del protagonista che, per tanti, troppi tratti, mi ha ricordato me stesso, molti miei limiti, certi miei difetti, alcune vulnerabilità. Il tutto scritto e descritto come scrive e descrive Doyle. Cioè in modo dolorosamente vero. E un certo dolore di fondo ho provato, in effetti. Finché, come detto, la vicenda prende poi altre direzioni e sono potuto tornare alla realtà, la mia soltanto.
Comunque, sentirsi il personaggio principale di un libro di Doyle, anche solo (per fortuna) fino a un certo punto e per aspetti piuttosto criticabili, credetemi, non ha prezzo…

“mi hanno davvero spaventato perché, a seconda di come le cose cambiavano, una parola sbagliata, una maglia sbagliata, il gruppo sbagliato o un sorriso irresistibile, potevano distruggerti.

Iuri Toffanin