Via col vento – Margaret Mitchell #ViaColVento #NeriPozza #MargaretMitchell #Pulitzer

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Era molto molto moooolto tempo che mi chiedevo se avrei dovuto prima o poi leggere Via col Vento. Perchè prima di Vivien Leigh e Clark Gable, prima di Olivia de Havilland e Leslie Howard, prima di Mamie e degli otto premi Oscar, prima di tutto il mega carrozzone dell’epica Hollywoodiana insomma, è stato un libro. Un libro vendutissimo, 176.000 copie in meno di un mese, un milione di copie in sei mesi; e non era solo il pubblico a idolatrarlo, anche la critica ne parlò sempre favorevolmente, tanto che vinse il Pulitzer nel 1937. Fu un fenomeno sociale ancora prima dei social network, quando per Rhett Butler fu scritturato Gable al posto di Gary Cooper rinunciatario tutto il pubblico americano espresse parere favorevole scrivendo lettere ai giornali, per non parlare della controversa assegnazione della parte di Rossella a Vivien Leigh, attrice non molto conosciuta, inglese, che sbaragliò uno stuolo di notissime vamp americane. Il fatto che fosse stata scelta un’inglese per interpretare una ragazza simbolo del “sogno americano”, suscitò non poche critiche; ma le Sorelle della Confraternita, associazione di nostalgiche sudiste, sostennero comunque che “un’inglese è sempre meglio di una yankee”. Quindi, mi chiedevo, ma vale la pena di leggerlo? e dunque l’ho letto e sì, è veramente meritevole.

via col vento

Via col vento è un romanzone storico, ma il fatto che ci sia nella trama un dramma d’amore non deve fuorviare, la vicenda storica non è mai in secondo piano: nelle quasi mille pagine del libro, i dialoghi propriamente “amorosi” non sono che una manciata di righe, il sesso è praticamente inesistente, e i baci infuocati due. Tutto il resto è una storia affascinante che contempla la sanguinosa Guerra di Secessione (con tanto di descrizione di armamenti, battaglie, combattenti di tutti i ranghi) e la Caduta degli Dei delle casate del Sud, e come i quattro personaggi principali Rossella e Rhett, e Melanie e Ashley, siano o meno capaci di adattarsi e sopravvivere, o rassegnarsi e scomparire. Rispetto al film, appare una nutrita schiera di caratterizzazioni secondarie, e di vicende marginali che nelle pur quattro ore di pellicola non avrebbero potuto trovare voce: quindi va da sè che se amate il film, il libro è una sorta di graditissima extended-version. C’è però da dire che i personaggi nel film, pur fedeli al romanzo, sono un po’ sbiaditi. La Mitchell offre una caratterizzazione superba, pennellando figure incredibilmente vere, profonde, di grande intensità: Rossella in primis, è una figura che nel libro risulta essere una totale, implacabile stronza, egoista, superficiale, amorale ben prima che la guerra esiga il suo tributo di crudeltà: è impossibile trovarla simpatica, umano desiderare che diventi un poco cessa almeno durante la guerra, visto che apparire è l’unica cosa che ha sempre considerato importante in tutta la vita. D’altronde soffriamo con lei mentre scava la terra a mani nude per mangiare una striminzita patata cruda sopravvissuta, ancora sporca di terra, e ci dispiace, nonostante tutto, per il dolore straziante che la assale nei capitoli finali, e credo che la grandezza della Mitchell stia in fondo tutta qui: aver creato personaggi così profondamente umani da essere veri. Siamo esattamente lì con Rossella mentre vaga sfinita nella nebbia trascinando un carretto scorticato, persa mentre cerca Tara, e per tutto il libro rimaniamo lì con lei, al suo fianco.

Eticamente abissale la differenza di Rossella rispetto a una Melania che è la vera protagonista morale. Nel film Melly esce come una specie di democristiana piagnona, impossibile da rispettare con le sue costanti, vuote lamentele: ma nel romanzo è una vera donna, il cuore, il vero coraggio di chi combatte per sopravvivere senza perdere la propria umanità, cosa che sia in Rhett sia in Rossella fallisce abbastanza miseramente: loro due incarnano il futuro americano, il lavoro, il fare i soldi con destrezza, se necessario sporcandosi le mani, l’etica del tutto secondaria rispetto al perseguire i propri fini. Mentre il resto delle donne e degli uomini protagonisti di Via col vento piangono per il perduto benessere e per come la guerra li abbia scagliati senza pietà in una realtà che non sanno accettare, Rhett e Rossella prosperano, a volte in modo amorale, accettando di fare affari con i nordisti, dimenticando tutto quello che è il loro passato e la loro giovinezza: perchè indietro non si torna, e contemplare il passato è una perdita di tempo.

Il vecchio Sud è celebrato come un luogo mistico, la memoria perfetta di un momento storico ideale per sempre perduto: i campi rigogliosi e le antiche ville bianche, gli interminabili poker dove si perdevano intere fortune e le corse di purosangue, il codice cavalleresco e il parlare pigro e strascicato, le piantagioni e l’immensa ricchezza che gli schiavi permettevano di coltivare, l’esagerata cortesia verso le donne, l’innocenza perduta di una generazione e di un’intera nazione. Sono momenti di vero lirismo, e la caduta brutale di quell’ancien régime si traduce nella comprensione che il vero odio sudista non è tanto, non solo, di tipo razziale, ma classista. Perdendo gli schiavi, i membri della classe sociale di Rossella perdono fortune, case, privilegi; e perdono anche il senso di superiorità morale verso i nordisti, giudicati volgari, affaristi, “gente comune” perchè lavorano, addirittura in fabbriche; mentre gli uomini del sud, che hanno sempre avuto gente a sgobbare per loro gratis da generazioni, hanno potuto studiare o viaggiare o darsi alle discipline sportive o militari, perseguendo quelle professioni o desideri artistici che più gradissero. Alla fine della guerra, mentre Rossella è in visita ad alcuni vecchi conoscenti di Atlanta, tutti facenti parte di famiglie bene ormai decadute, trova che i pochi giovanotti sopravvissuti alla carneficina della guerra stanno lavorando, in compiti di bassa manovalanza, una declassazione che scopre sconvolge più le donne delle loro vite che i giovanotti stessi. Perchè, le spiega uno di loro: “Noi ci siamo sfogati in combattimento. Le donne sono rimaste a casa, e non è rimasto loro altro che l’odio: odiano che i maschi delle loro famiglie ora siano sorveglianti, contadini, negozianti o manovali: mio fratello doveva diventare un giudice, mio cognato un violinista acclamato in tutte le corti europee, e io ero destinato a diventare un dottore”.

E’ doverosa e inevitabile una considerazione: nella sua romantica idealizzazione del mondo sudista prebellico, la Mitchell scrive un libro razzista, con personaggi innegabilmente razzisti. E’ un testo scritto nel 1937 da una signora del Sud, che racconta le storie che in famiglia le sono state tramandate; e ai suoi tempi, la questione razziale non solo non era stata davvero abolita con la guerra, ma non si era nemmeno cominciato ad indirizzarla seriamente come un vitale problema di diritti civili. Quindi la Mitchell introduce con grande garbo e noncuranza la descrizione dei bambini bianchi e neri di una stessa piantagione che crescono tutti insieme giocando; e il fatto che all’età di dieci, undici anni, il maggiore dei bambini schiavi viene regalato a uno dei ragazzini della casata, perchè rimanga sempre con lui a servirlo, come regalo di compleanno. Gli schiavi non sono maltrattati, nessuno nella famiglia ha il permesso di picchiarli se non la padrona o il padrone; e se questi lo fanno, avviene molto raramente, perchè gli schiavi sono cari, e fare loro del male non è produttivo; se sono ammalati li si cura, e hanno sempre cibo, vestiti, e alloggi puliti. Ci si mette poco a capire perchè, quando arrivano le descrizioni di come la padrona abbia appena ordinato nuove stalle più ariose per i cavalli: i neri della piantagione sono come i cani, i cavalli, gli armenti. Sono animali da soma la cui responsabilità e benessere stanno al padrone, che se ne deve occupare, in quanto creature che devono sempre essere guidate e comandate. A fine guerra, con la liberazione, ci sono descrizioni di negri che vivono beceramente in capanne lerce, campano facendo lavoretti saltuari e spendendo subito quello che guadagnano per ubriacarsi: perchè, spiega la Mitchell paziente, non sanno gestire il loro tempo libero, nè i loro soldi. Perchè, pensa il lettore odierno, non sono mai stati pagati prima, nè hanno mai avuto tempo libero, “PRIMA”. Ma sono questioni che non possiamo indirizzare all’autrice, e non sarebbe neanche giusto farlo: il suo tempo è finito, possiamo solo leggere le sue imbarazzanti convinzioni e passare oltre.

Via col vento è un libro ricco, complicato, affascinante; la Mitchell per lo più mantiene uno stile asciutto e semplice, con inaspettate note di lirismo nelle descrizioni di certa nostalgia del passato, o nello straziante dolore di un lutto. E’ un romanzo che impiega un poco a decollare, ma passati i primi capitoli è impossibile staccarsene: è il classico libro che ti risucchia, ti mastica e ti risputa fuori dopo tre giorni quando arrivi alla fine, esausto, in un vortice di emozioni sfatte, facendoti vagare istupidito mentre cerchi un modo di ritornare in quei luoghi e da quei personaggi.

E’ un romanzo che è un insieme di controversi messaggi, tra i falpalà delle tende adattati a cappellino e le crinoline, tra i complimenti fioriti e i vitini da vespa: tenta di giustificare la rabbia del Sud sconfitto, ma fornisce in fondo anche un messaggio di positività, e cioè che se l’odio è comprensibile, è possibile ugualmente crescere lasciandosi la rabbia alle spalle mentre si torna a vivere. Molti personaggi del romanzo non lo fanno, e cedono alla nostalgia, alla rassegnazione, o soccombono alla rabbia; altri sono amareggiati, sconfitti, ipocriti. Ma in tutto ciò non sono soli, perchè quel particolare insieme di amarezza e rassegnazione che viene dalle sconfitte che la vita ti butta addosso, tutti lo conosciamo: tutti abbiamo un passato da mitizzare, glorie che non torneranno più, sogni infranti che fanno ancora male; tutti vorremmo poter appoggiare la testa in grembo alla mamma alla fine di un periodo bastardo, come facevamo da bambini, sapendo che era l’unico porto sicuro nella vita. Ma Rossella si rialza sempre, e la sua ansia di vita, il suo furore di guardare avanti, di non fermarsi, di non cedere mai, creano nel lettore una profonda empatia, anche se è un personaggio che ha ormai i suoi bei settant’anni passati: perchè ci spiega che nella vita non ci si ferma, e se oggi proprio ci si è dovuti arrestare e piangere un poco, bè, lo sapete anche voi: Dopotutto, domani è un altro giorno.

E’ una storia ormai forse antica, di un periodo storico controverso e crudele: però è un racconto potente, che permette di superare l’imbarazzante ammorbidimento del tema dello schiavismo che adotta, mostrando come a volte il male, il nemico sia il vicino di casa, una persona rispettabile, per bene, colto e intelligente, e convintissimo delle proprie buone intenzioni.

Quindi, consiglio la lettura di questo bel romanzo, ingiustamente eclissato nel tempo dalle trine luccicanti di Hollywood.

Lorenza Inquisition

Editore: Neri Pozza
American film star Clark Gable (1901-1960) reading the novel 'Gone With the Wind' by Margaret Mitchell. His greatest role was that of Rhett Butler in the MGM film adaption of the book. (Photo by Hulton Archive/Getty Images)
American film star Clark Gable (1901-1960) reading the novel ‘Gone With the Wind’ by Margaret Mitchell. His greatest role was that of Rhett Butler in the MGM film adaption of the book. (Photo by Hulton Archive/Getty Images)

 

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Alabama – Alessandro Barbero #AlessandroBarbero #Sellerio

Alabama è il racconto in forma di monologo di un anziano reduce della guerra di secessione, il sudista Dick Stanton, stimolato da una giovane studentessa interessata per un suo lavoro universitario a ricostruire un tragico episodio dimenticato di quella drammatica svolta della storia americana e non riportato da testi ufficiali.

Il vecchio racconta divagando continuamente fra vita prima della guerra e le fasi cruciali della marcia e dei combattimenti della sua compagnia. Ufficiali, colleghi, amici affollano la mente del narratore in una moltitudine di storie e aneddoti che sapientemente lo storico e scrittore Barbero utilizza per portarci assieme al suo personaggio a quel tempo, a quella mentalità in cui i “negri” semplicemente sono merce comprata e venduta o barattata, come fossero cavalli muli o altre bestie o altri beni da consumare.

Storie certo tante volte lette e raccontate, direte, ma purtoppo sempre attuali come le cronache americane e altri libri contemporanei ci ricordano continuamente. Qui però, nella scelta narrativa dell’autore prevale inizialmente la tenerezza del ricordo recuperato e del calore umano del vecchio verso i suoi tempi ormai finiti nella sconfitta, stemperando così la dura realtà dello schiavismo in un amarcord affettuoso che aiuta anche a comprendere in parte la differenza sostanziale fra quell’epoca e tutto il razzismo sopravvissuto quasi fosse un genoma americano.

Ma non solo: nell’odio contemporaneo c’è solo lo spregio e l’accanimento razzista dei suprematisti bianchi, mentre a quel tempo i “padroni” avevano spesso l’atteggiamento benevolo e affettivo verso persone sentite come animali domestici e che quasi sempre rispondevano con acquiescenza e fedeltà totale verso il loro proprietario. Cani fedeli o docili animali da soma. Il racconto di Dick, contrappuntato brevemente solo in fondo ad ogni capitolo dalle riflessioni della ragazza su quello che sente raccontare, risulta inizialmente un po’ faticoso nella lettura per la forma monologante e disordinata del vecchio con molti nomi di neri e bianchi che non essendo veri e propri personaggi ma spesso brevi inserti aneddotici, tendono a confondersi.

Ma si arriva alla parte finale con il racconto della strage perfettamente calati nel contesto e nel clima che Barbero ha saputo sapientemente ricreare e allora sale in primo piano non la tenerezza del ricordo ma la terribile naturalezza con la quale Dick e i compagni uccidono i neri prigionieri, colpevoli di aver imbracciato le armi assieme ai nordisti. Ed è allora che la ragazza si spaventa di sé stessa, perché davanti al vecchio Dick è comparsa una vecchia “negra” a portare una bevanda, apparizione che la ha agitata, indispettita e quasi portata a cacciarla fuori dalla stanza: quasi a segnare la presenza di fantasmi del passato che non se ne vanno mai pronti ad abitare anche la mente e il cuore di chi vuol capire come è stato possibile e come potrebbe essere facile farlo riaccadere.

Renato Graziano

Editore: Sellerio Editore Palermo Collana: La memoria

Alcuni anni fa, nei suoi percorsi e studi da storico, Barbero ha incontrato una storia che non poteva essere racchiusa in un saggio. Ed è quella di Alabama, che pur non essendo nato come reazione alla storia recente ne anticipa i motivi profondi, scandagliandone l’oscurità delle viscere. È la vicenda di un eccidio di neri, di «negri», durante la Guerra di Secessione, la prima grande lacerazione nazionale che divide il paese tra chi vuole bandire la schiavitù e chi non ne ha nessuna intenzione. Ed è la storia di bianchi pulciosi e affamati che vanno in guerra per pochi spiccioli e che sentono il diritto naturale di fare dei negri quello che vogliono. Tutto questo diventa il racconto fluviale, trascinante, inarrestabile, dell’unico testimone sopravvissuto, Dick Stanton, soldato dell’esercito del Sud, stanato e pungolato in fin di vita da una giovane studentessa che vuole ricostruire la verità. Verità storica e romanzesca, perché Barbero inventa una voce indimenticabile, comica e inaffidabile, logorroica e irritante, dolente e angosciosa, che trascina il lettore in quegli abissi che ancora una volta si sono riaperti. Il nuovo romanzo di Barbero va davvero a toccare i tratti del carattere americano che sono deflagrati negli eventi dell’ultimo anno e degli ultimi mesi: la questione del suprematismo bianco, il razzismo profondo che innerva persino le istituzioni, la mentalità paranoica, l’orgoglio e la presunzione di farsi giustizia da sé, la violenza che scaturisce dalla povertà, dalla rabbia, da ciò che si vive come ingiusto sulla propria pelle e che si rovescia su chi è ancora più debole.