Storia della mia gente – Edoardo Nesi #recensione

*Un premio Strega

Edoardo NesiStoria della mia gente
Bompiani

Onestamente ho scelto questo titolo perchè in offerta su una bancarella dell’usato, il fatto che fosse stato vincitore del premio Strega nel 2011 era per me sinonimo di qualità e l’ho comprato a scatola chiusa. Ahinoi. C’era anche un principio di trama a invogliarmi, quel “storia della mia gente” che presupponeva un racconto famigliare, un senso di perdita o ricordo di un passato che non tornerà mai. Ahinoi eddue.

Il fatto che questo libro abbia vinto il Premio Strega a me deprime, io non mi capacito. Non sono un critico letterario e capisco relativamente poco di alta letteratura ma mi pare davvero che se i quattrocento uomini e donne di cultura italiana che selezionano le dodici opere finaliste non hanno trovato niente di meglio di questo romanzo nel 2011 la situazione italica è un pantano irreversibile. Mi rendo conto che praticamente nessuno al di fuori della ridotta schiera di lettori forti e di addetti ai lavori in Italia si interessa davvero al premio letterario, e che forse è vero che le case editrici che concorrono si contendono il primato per dividersi  equamente le annate, ripartendo ora all’una ora all’altra casa editrice quelle 50/70mila copie che, dicono gli esperti, quella fascetta gialla o rossa intorno al volume vale nelle librerie. Quindi lo scrittore, l’opera, in tutto ciò sono secondari, d’accordo. Ma.

Storia della mia famiglia è narrato in prima persona dall’autore, ultimo figlio di papà dell’azienda tessile di famiglia, un’impresa fondata dal nonno che ai tempi d’oro del dopoguerra rappresentò una delle più importanti fabbriche di tessitura della città di Prato. Questo poteva essere il preludio a una storia sociale ed economica molto più corale e approfondita; in realtà l’autore affronta il disastro italiano ed europeo legato alla liberalizzazione dei mercati prima e alla conseguente globalizzazione poi come due ingiuste mazzate che sostanzialmente gli hanno tolto il mondo dorato in cui ha sguazzato per tutta la sua giovinezza e parte dell’età adulta. Nesi non racconta la storia della sua famiglia, ma la sua gioventù, le estati nei campus estivi americani a non fare sostanzialmente nulla se non frequentare corsi di letteratura (la cultura non è mai uno spreco, ok), l’iscrizione in Università in Italia a una facoltà che non gli interessa davvero e la prevedibile conseguente rinuncia agli studi, per entrare quindi in azienda, come era predestinato che fosse da che è nato, raggiunta quell’età per cui in famiglia consentirgli di bambocciare non era più tollerabile. E dopo pochi anni di lavoro a fianco del padre, nel momento in cui era pronto almeno nominalmente a subentrare alla direzione, arriva la crisi finanziaria e in un sommo slancio di intuizione tutta la famiglia decide di vendere la fabbrica prima di perdere irreversibilmente tutto.

Nelle poche pagine in cui si distoglie dalle sue vicende, Nesi racconta un mondo – diffuso su tutto il territorio italiano che produce, o meglio produceva – immutabile dai tempi dei suoi nonni passando fino agli anni di suo padre, dove intorno alla loro grande e importante azienda nascevano e prosperavano piccole fabbriche, imprese e ditte dell’indotto che riuscivano a stare a galla con decenza e un minimo profitto perchè, ai tempi, bastava lavorare tanto. Erano piccole realtà in cui non serviva una grande mente per gli affari o lo slancio dei grandi squali imprenditori, era sufficiente avere un ex operaio che con un piccolo prestito si metteva in gioco e con dignità riusciva ad essere proficuo per sè e tutta la famiglia. Erano piccoli mondi immutati e immutabili nel sistema per oltre trent’anni, che non si sono mai adeguati a un computer in più e che hanno continuato a usare il fax e il bloc notes per gli appunti fino a che la crisi non è subentrata. E da lì è stato spazzato via tutto, ed è certo un modo di raccontarlo.

Però ci sarebbe anche l’altra faccia, che qui non compare se non per assenza, quella di un’Italia privilegiata solo perché figlia degli sforzi della ricostruzione e dell’abbondanza, che manca di produttività perché infestata da figli di papà che, non paghi di dirigere un’azienda piovuta dal cielo e senza neanche lo sforzo di una laurea, arrivano a un fallimento senza poterlo impedire, perchè non ne hanno le competenze o l’intuizione. E di storia della gente, in questo libro ce n’è proprio poca: Nesi non ci spiegherà come funziona un’azienda tessile, non ci racconterà come si sono insediati i cinesi a Prato, nè ci parlerà delle situazioni di migliaia di famiglie italiane rimaste senza lavoro. E’ dolente per come ci è rimasto male suo padre quando hanno venduto, ma avrà avuto anche operai e conseguenti famiglie di cui preoccuparsi, no? no. Questa è la storia degli imprenditori, non degli operai. Vi racconta solo la rabbia di un rampollo decaduto, uno sfogo, comprensibile ma che ci lascia un po’ freddi, visto che egli nella sciagura si è piazzato meglio di moltissimi suoi connazionali, di un giovanotto che si è visto privare di quel futuro che gli era stato promesso, la rabbia per essere stato additato come parte di una generazione senza idee né ideali, la prima generazione «che andrà a star peggio di quella dei nostri genitori».

Non è un libro veramente brutto, e si legge in modo scorrevole; non è nemmeno propriamente un romanzo, un’opera a metà tra il diario letterario e il commento giornalistico. E’ piacevole a tratti, pieno di rimandi letterari e citazioni musicali e cinematografiche; ma dove piovono i titoli di opere letterarie, scene di film e di romanzi, la scrittura onestamente arranca. Le pagine più felici sono quelle in cui descrive con commozione e competenza certi artigiani del tessuto, geni della composizione e della stoffa, e l’etica lavorativa di uomini ormai morti da più di trent’anni.

Per me è un’opera superficiale e autocelebrativa, che finisce con il togliere l’empatia per quella che è stata l’Italia lavorativa dei nostri padri e nonni, per deviare in un piagnisteo irritante sul mondo perduto che il Nesi pare rimpianga per la sua fu personale condizione di privilegiato pieno di soldi e possibilità di fare quello che voleva, una terra dorata dove ognuno pensava per sè senza alcun senso della comunità, dove diversi imprenditori adesso se la suonano e se la stracantano come se i cinesi avessero fatto tutto da soli senza il contributo di molti fabbricanti che hanno svenduto le conoscenze, i macchinari e le fabbriche intere nell’illusione che questa gente avrebbe lavorato al posto loro, un’illusione che i loro nonni gli avrebbero tolto a bacchettate sui ditoni.

Rimane la malinconia per quella che è stata una storia di eccellenza che ha ceduto il passo a una vicenda nazionale drammatica, di disgregamento del lavoro e dei diritti, e l’indignazione su colpe di un governo che certamente non ne è esente, e non ha capito il pericolo dell’apertura ai mercati cinesi, con una pagina piuttosto coinvolgente sulla situazione della comunità cinese a Prato, dove i lavoratori clandestini sono costretti a faticare in condizioni disumane e schiavizzati. Ma sono frasi sparse qua e là in mezzo a una marea di inutili considerazioni personali, per me. Poteva essere un canto dolente sulle ceneri del lavoro dei suoi avi e dei suoi operai, un canto corale e solidale di vari destini sfortunati e irripetibili, ma finisce per raccontare solo la storia di un’esistenza felicemente al di sopra delle righe, svanita da un momento all’altro come una bolla di sapone.

Dopo questo libro posso dire che le mie già inesistenti speranze in un futuro migliore per questa italietta si sono buttate nello scoramento spinto, perché se chi come l’autore ha il privilegio di avere possibilità economiche, culturali e sociali per elevarci come nazione almeno artisticamente, soffre di questi eccessi autocelebrativi, superficiali e soprattutto inconcludenti, non c’è speranza.

Giudizio critico: Se son rose moriranno.

Lorenza Inquisition

 

La masseria delle allodole – Antonia Arslan #antoniaarslan #recensione

Leggere il mondo: Armenia

“C’è un momento nella vita di ogni donna armena, in cui la responsabilità della famiglia cade sulle sue spalle. Noi moriremo, per evitare questo peso alle nostre perle, alle nostre rose di maggio: e infatti moriamo.”

Questo è il tipo di libro per cui la valenza storica di quello che narra travalica i difetti di esecuzione; e tanto è più importante l’argomento, il genocidio del popolo armeno messo in atto dai turchi nel 1915, quanto irrisorio sembra il riportare i difetti nella narrazione. Probabilmente non ha molto senso valutare questo libro nella sua qualità letteraria, qualsiasi lettore appena dotato di un poco di empatia si lascerà travolgere dalla tragedia, e lascerà cadere la forma in secondo piano, e penso sia giusto così, dato che non è un romanzo che nasce con velleità di saggio storico ma solo come cronaca famigliare.

Antonia Arslan discende direttamente da una delle casate sterminate nelle stragi; nei primi anni del Novecento suo nonno Yerwant emigrò tredicenne per studiare in Italia dalla cittadina dell’Anatolia dove viveva il resto della sua numerosa famiglia, il padre con la nuova moglie e sei figli, il fratello minore nuovo capofamiglia e le sorelle nubili, e i bambini e i nipotini tutti. Yerwant si laurea a Venezia e poi si ferma in Italia, a Padova, dove sposa una nobildonna triestina dalla quale avrà due figli, uno dei quali è il padre dell’autrice. Il fratello Sempad rimane al villaggio natale dove la sua famiglia è ricca, rispettata e onorevole, e non ci sono (apparenti) problemi tra gli armeni cristiani e i turchi musulmani. L’autrice ha una penna felice nel descrivere usi e costumi di questo mondo ovattato e irripetibile, la cucina con i grandi pani ovali ricoperti di semi di sesamo e papavero croccanti, lo yogurt fatto in casa e i dolcetti di miele e noci, gli scialli ornati di fili di seta e oro delle ragazze e il vezzo di mettere ogni mattina un geranio fresco dietro l’orecchio nella spessa treccia nera.

Poi, scoppia la guerra nei Balcani, e un anno dopo, una sera di maggio del 1915, arriva l’ordine: tutti gli uomini armeni nel villaggio, vengono arrestati. Nessuno si preoccupa eccessivamente, anche se gli armeni già in passato sono stati perseguitati dai connazionali turchi. Ed è questo che li condanna. Confidano di vivere adesso in una nuova e pacifica era di convivenza e di progresso, non potevano letteralmente concepire che i loro stessi concittadini, spesso ospiti nelle loro stesse case, li avrebbero non solo traditi, ma barbaramente assassinati.

Eppure. La strage comincia; ove vi è l’opportunità, tutti i maschi delle famiglie vengono uccisi quella notte stessa, senza processi, sentenze, deportazioni, per eliminare la minaccia fisica maggiore. La mattina rimangono da gestire solo le donne, i vecchi e i bambini, i più deboli della società: vengono informate che i maschi sono in prigione altrove, trascinate fuori dalle case e, in centinaia, costrette a incamminarsi attraverso l’aspro territorio della steppa della Mesopotamia e dei monti curdi, una marcia interminabile, di orrori indicibili, fino ad Aleppo in Siria dove, se qualcuno arriverà vivo, verrà portato nel deserto e ucciso lì.  Questo è il racconto inumano di violenze, saccheggi e stupri da parte dei curdi e degli stessi soldati turchi, di bambini e vecchi morti e dimenticati lungo la strada senza sepoltura, di famiglie intere sparite nel nulla così.

“E’ il giorno più funesto per un paese quello in cui, per sentirsi unito, sente il bisogno di eliminare una parte dei suoi cittadini, inermi.”

La casata dell’autrice non scompare interamente: in quell’orrore immane due giovani zie nubili si occupano con ogni mezzo di salvare almeno i bambini, l’unica eredità rimasta alla loro famiglia, lasciando a loro l’ultimo boccone di pane, prostituendosi alle guardie turche in cambio di una razione in più, proteggendoli a scapito della propria incolumità e salute, e riusciranno eroicamente a mantenerli in vita fino ad affidarli ad alcuni amici, determinati a soccorrerli nonostante il governo turco avesse proibito per legge qualsiasi aiuto ai deportati.

Una saga raccontata quasi con pudore di fronte alla terribile fine di quasi tutti i personaggi, come se la vergogna fosse dei morti e non dei perpetratori dell’odio e della barbarie.
E’ un romanzo corale con personaggi che avrebbero meritato una scrittura migliore, lo dico senza retorica; eppure anche così, con qualche difetto, rimangono con noi, Sempad con il suo codice morale altissimo, perchè era un farmacista, quindi quasi un medico, e comunque un letterato, una colonna della sua piccola comunità agraria dove aiutava i malati, custodiva i veleni, leggeva i telegrammi e i giornali che arrivavano nel suo negozio come recapito. Azniv la bella, che amava ballare con il suo ragazzo armeno e aveva anche un proibitissimo spasimante turco, e Veron la zia cicciotella che metteva i risparmi in una scatola di guanti per andare un giorno a vivere da uno zio a Boston, e diventare americana.

Una strage, quella armena, dimenticata, sommersa prima dagli orrori della guerra mondiale e poi dalle stragi naziste, ma non per questo meno importante, di cui si sa poco generalmente, forse perchè la Storia la scrivono i vincitori, in fondo. Ma, comunque, il passato lo possono trascrivere anche i vinti, le loro parole arrivare fino a noi, e rimanere.

Consiglio questo libro se non amate troppo leggere resoconti di avvenimenti del passato in libri impegnativi ma volete comunque informarvi su questa terribile pagina di storia; è un romanzo che non si sofferma su aspetti storico politici o interpretazioni filosofiche, rimane nel campo della cronaca famigliare e proprio per questo trasmette un grande senso di umanità.

Lorenza Inquisition