Clara, la protagonista, per me era la Signora Clara, nonna dei miei cugini Roberto e Cinzia. Me la ricordo benissimo, sempre sorridente e pronta a offrirci il tè con i biscotti per merenda e un panino al salame prima di partire. Sì perché la Signora Clara abitava ad Armeno, un paesino sul Mottarone e per noi “cittadini” era una gioia andare a trovarla.
Oltremare è una storia vera, la storia di Clara, del suo grande amore Romeo, delle peripezie per raggiungerlo in Malesia viaggiando sola durante la Grande Guerra e della loro vita nelle piantagioni di alberi della gomma. Sapevo già tutta la storia? No, perché la Signora Clara a me che ero una bambina raccontava solo i particolari lieti e divertenti. Gli avvenimenti tragici li ho saputi leggendo queste pagine scritte dall’autrice su richiesta dei miei cugini sulla base del diario di Clara.
Qualche lacrima, tanti sorrisi e ricordi indimenticabili.
Nel pieno della Prima Guerra Mondiale, una giovane donna parte dal suo piccolo paese sui monti novaresi verso la lontana Malesia per raggiungere l’uomo della sua vita. Un viaggio rischioso che sfida ogni pericolo e pregiudizio, alla conquista dell’amore e della vita.
“A te, che non mi hai mai conosciuta”: è questa l’intestazione della lettera che, nel giorno del suo compleanno, riceve un romanziere viennese, un quarantenne di bell’aspetto a cui la vita ha offerto i suoi doni più ambiti: la ricchezza, la fama e un fascino “morbido e avvolgente” a cui è impossibile resistere. “Ieri il mio bambino è morto”: così esordisce la misteriosa scrivente, e continua: “adesso al mondo mi sei rimasto solo tu, tu che di me non sai nulla”. Quando lui leggerà quelle righe, lei sarà già morta: per questo, solo per questo, concede a se stessa di raccontargli la propria vita la vita di una creatura che per più di quindici anni (prima bambina, poi adolescente, e poi donna) gli ha votato, “con la dedizione di una schiava, di un cane”, un amore “disperato, umile, sottomesso, attento e appassionato”, senza mai rivelargli il proprio nome, senza mai chiedere nulla, ottenendo in cambio solo poche notti d’amore e portandosi dentro un unico, struggente desiderio: che incontrandola, almeno una volta, la riconoscesse. Ma quasi sempre il volto di una donna rappresenta per l’uomo “solo lo specchio di una passione, di un gesto infantile, di un moto di stanchezza, e svanisce altrettanto facilmente di un’immagine allo specchio”. E il destino di lei è stato di non essere mai riconosciuta. La descrizione di un labirinto di amore assoluto, un ritratto di donna ardente e viva e, al tempo stesso, immateriale come “una musica lontana”.
Leggendo il titolo avevo pensato ad un amore mai consumato, mai vissuto neppure per un attimo. Una donna che si innamora di un uomo senza mai riuscire ad incrociare la sua strada. Invece no, la storia di questa donna è qualcosa di diverso ed è più importante quello che non dice di quello che racconta. Leggendo questo piccolo capolavoro non potevo non immaginare l’oggetto di un amore così grande, “colui che non riconosce”, ad ogni pagina, immaginarmi l’eleganza, la cultura ma anche la vacuità, la superficialità di un uomo di tal fatta. Un uomo che non sa cosa è l’amore e che fa della superficialità la sua ragione di vita. Il lettore si concentra sulla figura maschile egocentrica e superficiale.
Barbara Gatti
“Lettera di una sconosciuta narra la passione devota e assoluta di una giovane donna nei confronti di uno scrittore affermato, viziato dal successo, capace più di descrivere che vivere effettivamente i propri sentimenti. Solo leggendo la missiva, dalla quale apprenderà di avere generato un figlio in occasione di un fuggevole incontro, si renderà conto di questa delicata, costante, discreta devozione che porterà alla morte colei che gli scrive, incapace di sopravvivere alla morte del loro bambino. L’indiretta descrizione del suo freddo atteggiamento da dandy e l’atmosfera viennese della novella ricordano il breve dramma lirico Il folle e la morte di Hugo von Hofmannsthal, del 1893, con il suo protagonista Claudio, incapace di condividere davvero i sentimenti provati da chi gli è stato vicino. La magistrale riproposizione di quelle atmosfere da belle époque alcuni anni dopo la fine del primo conflitto mondiale, che per sempre le aveva distrutte, è un segno tangibile di quanto Stefan Zweig vi fosse intimamente e drammaticamente legato.” Giorgio Kurschinski