“La lotta dell’uomo contro il potere e la lotta della memoria contro l’oblio”.
Ho appena terminato questo libro, definito da Kundera, verso le ultime pagine, come un “romanzo in forma di variazioni”.
Così come l’essere umano, sospeso a metà tra l’infinitamente grande e l’inifinitamente piccolo, accetta di perdersi nella vasta infinità esteriore, ma non sopporta di non riuscire a possedere fin nell’intimo centellio il mondo interiore della persona che ama, così Beethoven, nell’ultima fase della sua vita, esplorò accuratamente le variazioni musicali, concentrando le sue sedici battute nelle infinite sfaccettature del suo microviaggio. Allo stesso modo, Kundera suddivide l’opera in sette parti, due dedicate all’amato personaggio di Tamina, naufraga malinconica che vive aggrappata al peso di un passato evanescente e perduto, piena di potenzialità di vita ma senza una meta a cui tendere, la prima allo scienziato Mirek, che va inesorabilmente incontro al suo destino quando decide di opporsi, con la passione inglobante e noncurante del proprio benessere personale che brucia solo nella vocazione, al potere costituito, lottandovi contro come la memoria lotta con l’oblìo.
Nella seconda parte, una giovane coppia, ormai imprigionata dal giogo del contratto che viene implicitamente stipulato tra gli amanti nelle prime delicate settimane d’amore, giogo che è diventato insopportabile dopo anni di matrimonio, decide di scegliere un’amica comune, Eva, cacciatrice sensuale e votata all’amicizia, lontana dall’egoismo e dall’isteria dell’amore, che fondendosi con i loro corpi restituisca, come un’oasi, un boccata fresca di libertà. Il tutto sullo sfondo della tenerissima fragilità e piccineria della “mamma” di lui, delineata con tratti profondi e delicati, come una pera immortale che si staglia sullo sfondo sfocato di un carrarmato tanto più reale, quanto più immateriale per la lente rassicurante ed egocentrica con cui guarda la vita questa anziana donna.
C’è una parte poi dedicata a uno studente, divorato all’interno dal concetto inesprimibile in altre lingue della lítost, che è quel tormento insopprimibile che proviamo di fronte allo spettacolo indicibile della nostra miseria, e che ci spinge alla vendetta. Con l’inferiore, attraverso la violenza. E di fronte a un potere superiore, come gli spartani contro i persiani, o come lo studente di fronte all’ineluttabilità di una notte d’amore scivolata via dalle mani per uno stupido errore, attraverso l’immolazione dello schiaffo riflesso, dell’omicidio attraverso il suicidio. Bellissima anche la riflessione, contenuta in questa parte, sull’amore e sul bruciare della passione che trasforma le miserie e le vergogne ammantandole di stelle, contrapposta a quella ironica e disincantata della concretezza dei sensi, e della schiettezza asciutta dell’onestà.
Nell’ultima parte prende vita Jan, donnaiolo che nella continua ripetizione dei suoi schemi di corteggiamento, solleva con una mano la polvere che nasconde il confine, intesa come quella linea metafisica che ci accompagna tutta la vita, oltre la quale le cose si svuotano di senso, e il ridicolo e la tristezza prendono il sopravvento. Quella ragnatela sottile a cui sentiamo di essere appesi per la vita, e che un live soffio di vento può scostare anche solo di un millimetro per farci guardare tutto con occhi diversi, come la nudità, simbolo di emancipazione e libertà dei sensi, che diventa improvvisamente insignificante, triste. Sudario.
Tutto questo sullo sfondo del tema principale, quelle sedici battute che per Kundera sono il 1948, quando il popolo boemo consacra la liberazione dal nazifascismo e l’insediamento al potere dei comunisti, e la parte migliore degli intellettuali della popolazione partecipa entusiasta alla creazione del nuovo governo, e gli anni successivi, in cui l’azione sfugge al controllo e quei giovani intellettuali diventano i nemici più feroci di questo finto idillio, arrivando agli estremi della Primavera di Praga, il 21 agosto del 1968, quando i russi invadono la Boemia con i carrarmati per ristabilire l’ordine. 120.ooo emigrati, 500.ooo persone che perdono il loro lavoro per essere emarginate, con un attento calcolo, ai confini più lontani della società, incarcerazioni, impiccagioni degli oppositori politici.
E i personaggi delle variazioni fanno ognuno i conti con l’emarginazione, la lotta per la libertà che arriva ad affacciarsi sulla vertigine del confine, il tentativo di ribellarsi agli occhi gelidi degli angeli con il riso diabolico e pieno che frattura qualsiasi realtà dittatorialmente ingessata, e la ricerca di conservare la memoria fuori dai confini di un paese dove a presiedere è l’oblìo che cancella ogni passato, sfociando in un’infanzia senza ricordi e senza nome, in cui l’antinomia tra osceno e ingenuità si fonde nel muto terrore di un soffocante abbraccio, che punisce ogni dissenso, osservando con occhi avidi e spalancati l’agonia del diverso.
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La mia personale impressione è quella di aver letto un testo che mescola romanzo, diario (molte le meravigliose riflessioni personali che Kundera fa in prima persona ricordando la sua vita, come il dialogo senza parole ma carico di sentimento con il padre quasi muto, che viene accompagnato nel suo laborioso viaggio verso la morte), resoconto storico, il tutto ingemmato dai limpidi tasselli estetici di riflessioni filosofiche, che risuonano come quell’ “anello d’oro che cade in un vaso d’argento” che è il diapason del silenzio del giovane malato di Thomas Mann, sussurro che fa emergere dal baccano della vita contemporanea l’Atlantide della Bellezza, una morte senza cadavere, stemperata nell’infinito azzurro del cielo.
Giulia Casini