Io non mi chiamo Miriam – Majgull Axelsson #recensione

“Potevano fucilarla per il vestito a brandelli… Senza riflettere, se lo tolse in fretta e si chinò su una ragazza stesa sul pavimento del vagone, le sbottonò il vestito e se lo infilò per poi gettare sulla morta il suo tutto strappato… Un triangolo giallo. Ebrea. Ah. Dunque era diventata ebrea e doveva mettersi tra le altre ebree. Una volta arrivata al campo avrebbe sempre potuto inventarsi una spiegazione…”

miriam

Vivere per 70 anni celando la propria identità, e soprattutto se stessi, i propri pensieri, il proprio essere più profondo e vero.
Miriam non è il suo vero nome. Miriam non è ebrea, Miriam è una zingara.
All’ingresso in Auschwitz, per un caso del destino, ha colto l’opportunità di passare da zingara ad ebrea.

“Potrei dire di averlo fatto solo perché desideravo tanto sopravvivere, ma non è vero. In realtà non volevo vivere. Didi, il mio fratellino, era appena morto e Anuscha lo era da tempo. Però volevo essere un cadavere intatto, non volevo morire fucilata o fustigata o uccisa a calci… Non so perché ma era così. Volevo essere un cadavere intatto“.

“Ti dirò, i tedeschi erano abominevoli con quelli che avevano il triangolo giallo, disgustosamente abominevoli, ma le prigioniere, comprese le kapò erano peggio nei confronti degli “zingari”, e in fondo era soprattutto con gli altri prigionieri che si aveva a che fare. Così continuai a essere Miriam”.

Perché l’Olocausto è stato anche questo. Nel mezzo dell’Orrore più grande mai creato dall’uomo, c’era a sua volta un’ulteriore gerarchia. C’è chi ha vissuto un Olocausto ancora peggiore di quello subito dagli ebrei. Gli zingari, i rom. Odiati dai nazisti più degli ebrei, e odiati e scansati da qualsiasi altra etnia, anche gli ebrei detestavano gli zingari. Il 2 agosto del 1944 tutti i Rom e i Sinti ancora vivi a Birkenau, quasi 3000 persone, tra cui tanti bambini, furono bruciati vivi. Morirono uccisi 500.000 zingari, in totale. Prima di morire si batterono eroicamente ad Auschwitz nello stesso ’44, come descritto anche in questo libro. Solo nel 1980, praticamente ieri, la Germania riconobbe l’Olocausto dei Rom.

Miriam/Malika decide di erigere questa diga identitaria per tutta la sua vita.
Perché l’Olocausto non finisce mai. E se sei rom, va anche peggio.
Anche la civilissima Svezia può condannarti solo per le tue origini. Nonostante sia stata fuori dalla Seconda Guerra Mondiale, nonostante la sua civiltà e il suo benessere, negli anni ’40 perseguitò i rom. Nulla conta l’integrazione, l’onestà, nulla. Non finisci mai di essere perseguitato, se nasci nelle parti sbagliate del mondo.
Questo è un romanzo in cui la protagonista è inventata, ma si basa su fatti storici reali, in cui si narra l’Olocausto ma anche quello che è avvenuto dopo. E il dopo non è un piatto dorato con rose e fiori.
Raccontare l’orrore, per un sopravvissuto, è un qualcosa di tremendo. E’ stato talmente enorme che chi ne è uscito vivo teme di non essere creduto. E teme di essere emarginato, di nuovo. E non potrebbe mai sopravvivere ad una nuova esclusione. E quindi tace.
E se sei rom, devi mantenere quel silenzio ancora con più forza e determinazione.

“Sì, certo che era stata costretta! Perché chi sarebbe stata se non avesse mentito? Come avrebbe potuto vivere? Come a Ravensbrück, come ad Auschwitz, con la sola differenza che l’avrebbero cacciata di luogo in luogo, di città in città, di villaggio in villaggio. Non era capace di vivere così. Ma come avrebbe potuto sopportare la menzogna per un’intera lunga vita?”

Miriam crolla solo il giorno del suo ottantacinquesimo compleanno. Le menzogne crollano, salta la sua copertura, la verità deve venire fuori, anche se sarà solo sua nipote a conoscerla.

Due anni e mezzo di studi su fonti bibliografiche e testimonianze orali, e sulle condizioni dei deportati e sulla cultura rom. Questo ha fatto la Axelsson, e solo grazie a questo enorme studio ha potuto scrivere questo romanzo accuratissimo, sia storicamente che psicologicamente, un romanzo che ti ti tiene avvinghiato alle sue pagine, nonostante il dolore e le sofferenze atroci, descritte benissimo, non riesci mai a distogliere lo sguardo, mai senti il bisogno di una pausa, il ritmo vola alto e tu segui col fiato sospeso tutta la vicenda, come fossi affamato anche tu di verità.

Miriam si chiede il perché abbia lottato tanto per continuare a vivere.
Ecco, leggiamo, e tramandiamo, continuiamo a farlo, diamo noi la risposta a quel perché. Facciamo in modo che la scelta di tanti sopravvissuti di non gettarsi sulle reti elettrificate dei campi di concentramento sia stata una scelta con un senso compiuto.

Non cadiamo nell’errore di giudicare questi fatti come parte del passato, di un passato che mai tornerà. Perchè oggi, in questo momento esatto, milioni di persone stanno bussando alle nostre porte in cerca di aiuto, milioni di persone di razza e religione diversa dalla nostra, e la nostra risposta non è dissimile da quella del mondo di 70 anni fa. Non basta piangere e commuoversi, bisogna fare qualcosa di diverso, bisogna fare di più.

Musica:Rudolf Karel – Symphony No. 4, “Symphonie renaissance” (1921)
https://youtu.be/jvQqvWmDX5I

(Rudolf Karel, nacque il 9.11.1880 a Plzen (Cechia). Dopo gli studi di Legge (1891-1899) studiò all’Università Carlina e al Conservatorio di Praga con Karel Knittl, Josef Klicka, Karel Stecker e Karel Hoffmeister; durante l’ultimo anno di Conservatorio (1904) fu allievo di Antonin Dvoràk. Allo scoppio della 1a Guerra Mondiale, trovandosi in vacanza a Stavropol (Russia) e non potendo rimpatriare, insegnò musica a Taganrog e a Rostov sino al 1917. Sospettato di essere una spia austriaca fu imprigionato ma riuscì ad evadere. Nel 1919 fondò l’Orchestra Sinfonica della Legione Ceca. Tornato in Cecoslovacchia insegnò al Conservatorio di Praga sino al 1941 allorquando le autorità tedesche d’occupazione lo costrinsero ad abbandonare la cattedra. A causa della sua partecipazione alla Resistenza cecoslovacca come membro del gruppo Kvapil-Krofta-Làny fu arrestato nel 1943 dalla Gestapo e incarcerato nella prigione di Pankràc (Praga). Nei 2 anni di prigionia Karel compose numerose opere (tra le quali un Nonet e l’opera I tre capelli del vecchio saggio, completata da Zbynek Vostrak e rappresentata a Praga nel 1948) grazie alla collaborazione di un guardiano che gli forniva fogli di carta igienica incollati tra loro che successivamente nascondeva fuori dal carcere, su cui scriveva grazie a del carbone vegetale, fino a che entrambi furono scoperti. Nel febbraio 1945 fu trasferito nella Piccola Fortezza di Theresienstadt, il campo di concentramento dove morì di dissenteria il 6.3.1945).

Carlo Mars

Living in the Land of Ashes – Konstanty Gebert #olocausto #recensione

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Il libro di Konstanty Gebert, “Living in the Land of Ashes”, riporta in prima pagina subito dopo la copertina cartonata la dicitura “Cracovia, 29/01/2009”, luogo e data in cui lo comprai, quando ebbi l’onore e l’onere di accompagnare un gruppo di studenti di 3° media nel viaggio della Memoria ad Auschwitz-Birkenau.

Ricordo vividamente la libreria in cui lo acquistai in quei pochi momenti di libertà a spasso per il centro innevato della cittadina polacca. Cercavo un souvenir da riportare a casa e su cui approfondire quell’esperienza diretta, quelle istantanee di viaggio e quei frammenti di storia con cui sono venuta a contatto in quei pochi ma intensi giorni d’inverno. Il libro è rimasto sugli scaffali della mia libreria per anni e solo in questi giorni ha finalmente potuto godere della mia attenzione.

Gebert, che ha iniziato la sua carriera giornalistica sotto lo pseudonimo di David Warszawski negli anni ’80, è uno scrittore polacco piuttosto noto che ha avuto il merito di dare vita al movimento dei “nuovi ebrei” in Polonia a partire dagli anni ’70 attraverso l’istituzione dell’ufficiosa “Jewish Flying University” e in seguito del Consiglio polacco dei cristiani ed ebrei, negli anni ’90.

Le pagine del suo decimo libro sono una raccolta di saggi e articoli in cui si propone di raccontare e descrivere eventi del recente passato polacco, sia dal privilegiato punto di vista del partecipante che attraverso quello più distaccato del giornalista finanche a quello essenzialmente ebreo, dal quale partire per riflettere sulla propria esperienza, quella di amici e familiari all’interno di un processo che ha investito l’intero paese alla ricerca di un’identità immensamente colpita dall’ombra della Shoah.

Con una prosa scarna e diretta racconta di come l’essere ebrei sia sempre stato celato o considerato un tabù nel suo paese: “it was a guilty secret best kept private”. Sfido chiunque a farsi avanti e rendersi riconoscibile dopo aver vissuto tali atrocità. Gli ebrei sopravvissuti all’olocausto abbandonarono il paese non appena ritrovarono le forze per farlo mentre quei pochi che decisero di rimanere nella loro patria dovettero fare i conti con il successivo antisemitismo del regime comunista e alle misure repressive del ’68 polacco che costrinsero all’emigrazione altri 20000 ebrei nei due anni che seguirono. Nei primi anni ’70, si stima che rimasero nel paese tra i 10000 e i 12000 ebrei, tra cui il nostro giornalista.

“The Jews who stayed in Poland despite 1968 did so because to emigrate was to acknowledge defeat, to recognize that entire lives had been based on illusions.”

Al di là delle difficoltà oggettive dettate dal clima politico e da un passato a dir poco doloroso, lo scrittore fa capire che “for all those involved, Jewishness was first and foremost a psychological problem”, uno stigma di alienazione che doveva essere superato al fine di dare un senso alla loro esperienza e prepararli a gestire i pericoli ad essa legati e perché no, a trasformarsi in qualcosa di positivo.

Colpisce il vibrante ottimismo con cui i sopravvissuti delle generazioni a seguire hanno iniziato a riunirsi, dapprima in segreto nei primi anni ’70 e allo scoperto soltanto dopo la caduta di Solidarnosc, nel 1989, accomunati dallo stesso desiderio di trovare un’appartenenza o più propriamente un essere, insieme per colmare quel “deserto della memoria” che era stato crescere all’indomani del secondo conflitto mondiale. E che si chiedevano se potesse e dovesse esserci una “vita ebrea” in Polonia dopo la Shoah; come dovevano relazionarsi gli attuali ebrei polacchi, figli e nipoti dei sopravvissuti con gli orrori della guerra e la gloriosa storia del loro popolo che l’aveva preceduta; se si sentivano a loro agio, in qualità di esigua minoranza, in un paese prettamente cattolico; come avrebbero interagito l’identità polacca e quella ebrea; quale impatto avevano creato 40 anni di comunismo sul loro destino.

Un approccio diverso con cui ricordare. Lo spaccato storico di un popolo che è dovuto risorgere dalle proprie ceneri ricercando l’identità perduta di chi l’ha volutamente seppellita o di chi ha dovuto farlo, per ovvie ragioni.

“Felek, born in Krakow in 1914, had moved to London just before the outbreak of the war. It was just to have been a temporary stay, but in the end, that’s where he remained. He returned to Poland for a brief trip after the war was over but found nothing to nourish or even validate his memories. […] If the past was useless, he had no use, either, for such idealistic visions of the future. He stayed in London, in an unending present.
It was a present, though, that was haunted by the living company of memories. Felek would go around town on his daily business with his head full of ghosts. Literally – the math teacher he remembered from his high school days had no other existence than that which she owed to Felek. She no longer had a life, but neither did she have a death: no grave, no shiva, no yorzeit, no relatives to remember her. Just a wisp of smoke from the chimneys, and then nothing between her and total oblivion but the few synapses in Felek’s head that kept her memory alive. And she had to fight for these few synapses against all the other ghosts, who also wanted to maintain at least a toehold in the land of memory. And all of them had to fight the owner of the brain, who needed his synapses for other ends as well.
At times Felek must have thought he was going mad. An entire ghost city lived in his brain, demanding attention, memory, love. None of that could possibly have meant anything to the people he had to deal with in his daily life. Nor, it must have seemed, was there even the glimmer of hope that other people – people who would understand – would one day show up. Where from? The past had been murdered. The present was inhabited by aliens. And yet, though he made his life in London, he kept coming back, coming back to Poland. Against his better judgement, against the reality of the present, against the living reality of where his home was now and the ruined reality of where it once had been, and indeed, against any and all reasons for not visiting the dead.”

N.B. A corredare il resoconto, alcuni scatti personali di quei giorni.

Owlina

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