Ci sono diverse chiavi di lettura per questo libro di Elizabeth Strout. Lo si può vedere in termini di rapporti conflittuali tra madre e figlia, come pure considerare il romanzo di un amore familiare complesso e contorto. E’ anche una lezione di scrittura dove l’insegnante è uno dei personaggi secondari del libro, una scrittrice di successo, che spiega a Lucy, l’Io narrante, come raccontare una storia. La sua storia, l’unica che le appartiene e che potrà raccontare. E’, anche, un romanzo dalle tante diramazioni dove dal tronco della storia principale partono i rami di brevi storie secondarie in una struttura che ricorda Olive Kitteridge.
Ma quello che si sente in modo particolare in questo libro, per citare la quarta di copertina, è l’assordante rumore del non detto. Il peso di un’infanzia di privazioni e di violenze, il sospetto mai dichiarato di abusi, il ricordo di episodi che la protagonista non saprebbe dire se veri o sognati, persi nella nebbia del tempo e della distanza. Un passato del quale non si parla, al quale non è permesso accennare. Questo gigantesco silenzio è ciò che lega madre e figlia nel breve tempo trascorso insieme dopo anni di lontananza. La madre non perdona alla figlia l’essersi allontanata dalla famiglia trovando rifugio nell’università. Non le perdona aver cercato di diventare diversa, di essersi “allontanata dalla feccia”, di essere diventata migliore. O aver avuto la presunzione di provarci.
Lucy brama inutilmente una parola d’affetto da parte della madre, quel ti voglio bene che la donna non dirà nemmeno sul letto di morte ed è talmente affamata di affetto dall’innamorarsi di ogni singolo gesto gentile di qualsiasi sconosciuto.
Eppure c’è amore tra queste due donne, c’è tenerezza. Elizabeth Strout ci mostra l’una e l’altra in quel suo modo speciale e devastante che ha di raccontarci la sofferenza, senza esprimere giudizi.
Non ho amato Lucy Barton come ho amato Olive Kitteridge, però penso che la Strout ci abbia regalato un’altra magnifica prova di scrittura.
Anna Massimino