Di cosa parliamo quando parliamo di Anne Frank – Nathan Englander #Englander #Einaudi

Di cosa parliamo quando parliamo di Anne Frank – Nathan Englander

Traduttore: S. Pareschi
Editore: Einaudi
Collana: Supercoralli
“Se poteste entrare nella mia testa di bambino e guardarvi intorno vedreste un mondo pieno di ebrei: i genitori, i bambini, i vicini, gli insegnanti… tutti ebrei, e tutti religiosi nello stesso modo. Ora guardate la casa della bambina cattolica sull’alto lato della strada. Cosa vedete? Una macchia indistinta? Uno spazio vuoto? Se non vedete niente, se la vostra risposta è niente, allora state vedendo quello che vedevo io.”
(Nathan Englander, Tutto quello che so della mia famiglia dalla parte di mia madre).

Titolo intrigante, riflessivo, a tratti impegnativo. Ma di cosa parliamo quando parliamo di Anne Frank? O meglio di chi o cosa bisogna fidarsi? Il tema dell’essere ebreo e della persecuzione, anche se in ambiti geograficamente diversi, caratterizza questa raccolta di 8 racconti che in modo a volte dark, a volte ilare, a volte surreale alla Woody Allen, ricrea scorci di cultura ebraica. Si passa dalla coppia ultraortodossa, piena di figli e imbevuta di tradizioni che si mette a confronto con una tipica coppia americana, meno libera di quanto si pensi; al tipico avvocato ebreo americano che pur ligio al dovere e alla famiglia, non si esime dal frequentare un peep show dove più che donnette languide incontra la propria coscienza e il proprio passato; alla storia dalla guerra di Yom Kippur ad oggi vista attraverso le vicende personali di 2 donne pioniere, rese dure dagli eventi e dai dolori; al bellissimo epilogo della vita professionale dell’anziano Autore che vive di piccoli reading in librerie deserte, per sbarcare il lunario dopo aver mietuto successi mondiali; a pensieri sparsi e brandelli di passato di Englander che cerca di mettere assieme ricordi di quello che resta della sua famiglia per costruire una specie di albero genealogico, per spiegare morti apparentemente eroiche, per dare un senso alle origini.
Nei racconti lo scrittore riesce a far camminare parallelamente le idiosincrasie, le pratiche, i fanatismo, ma anche l’onore, la sapienza, la persecuzione, la Shoah, l’Olocausto. E lo fa non nel modo a volte rabbioso di Roth o dimesso di Malamud ma in maniera ironica, caricaturale, laica, spesso da sit-com. Questo perché “racconti le storie che hai, come meglio puoi’ […] e adesso che sono completamente laico, la mia nipotina alza su di me – sullo zio – uno sguardo maturo. Chiede a mio fratello maggiore, con voce soave: – zio Nathan è ebreo?- la risposta è si. Zio Nathan è ebreo. È quello che chiamiamo un apostata. Non ti farà alcun male “.
In pratica il senso è tutto qui.

Paola Filice

Descrizione
Si respira un’aria antica fra le pagine di questa nuova raccolta di racconti di Nathan Englander. C’è l’immutabilità della parabola e la sapienza della narrazione ebraica, c’è il grottesco di Gogol’ e l’ineludibilità di Kafka, l’intelligenza caustica di Philip Roth e la spiritualità applicata di Marilynne Robinson. E intorno a tutto, incontenibile, liberatoria, un po’ sacrilega, una sonora risata. La scrittura di Englander corre agile sul filo teso fra il religioso e il secolare, agile e mai leggera, esplora gli obblighi e le complessità morali dei due versanti, ne assapora le esilaranti debolezze, strappando sorrisi pronti a congelarsi in smorfie attonite. Il marito esemplare e avvocato di successo di “Peep show” cerca la trasgressione in uno squallido locale a luci rosse, e incontra invece la sua cattiva coscienza travestita (o meglio svestita) da rabbino della sua vecchia yeshiva. Le nudità flaccide e pelose dell’esimio dottore della legge restano comiche solo fino al successivo, terrorizzante, travestimento. Si ride di gusto anche delle piccole manie geriatriche degli ospiti del centro estivo “Camp Sundown”, finché riguardano spray antizanzare e allarmi antifumo, ma quando le vetuste menti dei villeggianti credono di riconoscere in un compagno di soggiorno un carceriere nazista di ben altro campo del loro passato, la commedia si tinge di nero. L’ombra dell’Olocausto, o di una sua rivisitazione, occhieggia insistente.

Largo! Largo! – Harry Harrison #SoylentGreen #distopia #NewYork

Lunedì, 9 agosto 1999

La città di New York. Carpita dagli scaltri olandesi agli indiani semplicioni. Tolta con le armi dagli inglesi agli olandesi osservanti della legge. Strappata a sua volta ai pacifici inglesi dai coloni ribelli. Da decine di anni ormai gli alberi sono stati bruciati, le colline spianate, i freschi laghetti colmati e bonificati. Le sorgenti cristalline, ora imprigionate sottoterra, riversano direttamente nelle fogne le loro acque limpide. Dall’isola di origine, la città ha lanciato tentacoli urbani in ogni direzione, diventando una megalopoli.

Durante la mia gioventù brusciata avevo una cotta stratosferica per Charlton Heston e i suoi zigomi, agevolata dal fatto che mio padre si sparava qualsiasi film la sezione di critica cinematografica de il Giorno giudicasse di avventura, e noi bambini con lui. Perciò a ripetizione me li sono visti tutti i suoi, e pure più di una volta; una delle cose che ricordo con più sgomento dei miei occhi da bambina è ovviamente il finale de Il pianeta delle scimmie; ma anche le trame di Occhi bianchi sul Pianeta Terra, e naturalmente 2022: i sopravvissuti (Soylent Green), film ormai divenuti di culto, tratti da romanzi che nel tempo mi sono impegnata a leggere perchè il libro, rispetto al film, si sa.

Largo! Largo! ha una particolarità, ed è che la pellicola è solamente basata su ambientazione e tematiche del libro, usando gli stessi personaggi ma alterando fondamentalmente la trama. Perciò se si approccia il romanzo da fan del film ci si trova davanti a una storia diversa, pur ambientata nello stesso luogo e tempo; e la svolta del film, che non voglio spoilerare perchè se non l’avete visto correte a recuperarlo, non è diventato un cult della fantascienza senza motivo, è a dir poco scioccante (anche per i nostri occhi moderni che hanno già visto un po’ tutto, ormai), laddove il libro rimane di quieta disperazione. Ma comunque, leggendo non si rimane delusi, perchè è davvero un buon libro.

Innanzitutto, e soprattutto, Harrison sa scrivere, e crea un mondo allucinato, in un futuro (il suo, il libro è stato scritto nel 1966 ed è ambientato nel 1999) in cui la società del consumismo ha rovinato la Terra fino all’esaurimento delle risorse naturali; la sovrappopolazione fuori controllo e l’inquinamento hanno fatto il resto. In una New York distopica che assomiglia più a Calcutta che a una metropoli americana, in cui la gente ammassata vive, dorme, defeca per strada, sui pianerottoli, sulle scale anticendio e nelle griglie della metropolitana in disuso, ovunque ci sia un centimetro di spazio disponibile, si snoda una trama che è più una detective story che fantascienza, una storia cupa, inquietante e senza speranza.

Per tenere buona la massa abnorme di umanità cenciosa vige uno stato di polizia, non del tutto totalitario (siamo pur sempre in America, cribbio!), dove lo Stato interviene fornendo acqua e razioni di cibo, non molto, ma per lo meno non si muore di fame. Il protagonista è un poliziotto che indaga su un omicidio commesso nei quartieri alti; perchè sì, siamo nel futuro, ma l’ingiustizia sociale mica è scomparsa, e i ricchi riccheggiano in appartamenti lussuosi permettendosi vizi e prelibatezze come alcool e filetto di carne mentre  la moltitudine sta accovacciata in ogni angolo degli alveari della megalopoli e dipende totalmente dall’acqua e dalle razioni di cracker di alghe concesse.

«E la popolazione raddoppia, e raddoppia ancora, e continua a raddoppiare. Sempre più velocemente. La gente è un’epidemia, un flagello che infesta il mondo.»

Attraversando questo pezzo di America sepolta sotto le vestigia della passata tecnologia ormai inutilizzabile per mancanza di fonti energetiche, il poliziotto risolverà il caso, si interrogherà sul senso della vita e del proprio dovere, e lotterà per mantenere una certa umanità in un mondo che di umano non ha quasi più nulla.

“La tessera della Previdenza suppliva a tutto, a tutto ciò che permetteva di sopravvivere quel tanto che bastava a odiare la vita.”

Largo! Largo! è un classico che appartiene a quell’epoca d’oro del genere fantascienza sociologica, in cui la scienza veniva usata per illustrare con immediata crudezza (e una certa fantasia, d’accordo, ma vogliamo anche divertirci, mica solo riflettere) l’estremizzazione dei mali della società, perchè estrapolavano in modo acuto problemi del sociale odierno, proiettandone nel futuro le estreme conseguenze, descrivendo futuri visti come specchio distorto dell’epoca attuale (per lo scrittore ma, e lì sta la grandezza di questi libri, anche per noi che arriviamo cinquant’anni dopo).

Largo! Largo! è un libro che consiglio, anche a tutte quelle persone (donne) che schivano la fantascienza perchè per istinto lo pensano genere noioso, tecnologico, baborgio: non è nulla di tutto questo, anche se ovviamente è un romanzo un poco datato. Ma rimane un buon libro, che deve parte della sua storia ad altri, in primis Orwell; però laddove l’umanità di 1984 continua a conservare il seme della speranza (in fondo il Grande Fratello, le torture, il lavaggio del cervello e la repressione esistono proprio perchè c’è sempre (ancora) qualcuno che si ribella), nel romanzo di Harrison l’umanità è vinta, passiva, dedita alla mera sopravvivenza, senza un momento di autocoscienza. E’ uno di quei libri in cui speri veramente che a un certo punto tutto si risolva alla Rambo (siamo in America, perdinci!), e invece no, perchè con tutti i suoi difetti, l’America ha sempre avuto scrittori con le palle, e Harrison spietatamente inculca nei protagonisti una rassegnazione cupa verso il futuro di un’umanità in balia di un vortice di eventi sul quale non riesce o non può intervenire.

“Come può, un mondo come questo, andare avanti per un altro migliaio di anni, così? Così?”.

Lorenza Inquisition