Anni luce – Andrea Pomella

C’era una volta il mondo. Nel mondo, c’era una città in cui pioveva trecento giorni l’anno. La città si chiamava Seattle, estremo occidente degli Stati Uniti d’America. In questa città arrivò un surfista che veniva da San Diego, un fan scatenato degli Who e dei Ramones. In questo surfista, c’era un’anima. In quest’anima, c’era lo spirito di un’epoca.

Un libricino di 146 pagine diviso in 3 capitoli: due punti luce all’estremità e un fascio più intenso al centro dove si dipana il ricordo del protagonista nonché io narrante del romanzo. Già, forse azzardato chiamarlo romanzo… ha più la forma di un diario, col racconto di aneddoti corollati da una costante colonna sonora grunge, e nello specifico dalla musica dei Pearl Jam (da cui prende in prestito il titolo). L’idea di Anni luce è nata dallo sviluppo di un articolo su Ten, il primo disco dei Pearl Jam, che ha travolto gli anni della giovinezza di un’intera generazione. Il libro è in fondo la storia di un’amicizia: quella con Q., compagno di sbronze, chitarrista, viaggiatore, esagerato, che vive a mille chilometri all’ora; e il narratore, la cui voce si mescola con quella di Eddie Vedder, il cantante dei Pearl Jam.

Un elogio alla giovinezza e alle sensazioni di leggerezza, dolore, frustrazione che l’hanno accompagnata nella Roma degli anni ’90, tra feste strampalate, personaggi sui generis e un viaggio attraverso l’Europa alla ricerca di un’identità, forse mai veramente trovata.

Alcune pagine sembrano spiccare verso un lirismo inaspettato, ma a parte qualche citazione ben piazzata e l’emozione suscitata in chi quel periodo può averlo vissuto o meno, non ne consiglierei la lettura se non a fan esagerati dei PJ.

“Nel caso dei Pearl Jam, tutto ciò di cui avevo bisogno era già lì, nelle canzoni. La mia sete veniva placata semplicemente ascoltando un disco. Non mi serviva altro. Immagino che questa sia, tra le varie forme di godimento artistico, la più perfetta. La mia passione per la musica dei Pearl Jam era fine a se stessa.”

D’obbligo la citazione musicale con Light years https://www.youtube.com/watch?v=2bwsHdk6YhQ

Owlina Fullstop

Oltre la superficie delle cose – Sabrina Falanga #LoSconsiglio

Un venerdì fa decisi di andare a Torino. Volevo andare al D-verso cafè e sedermi con una tranquilla vivacità su una sedia, ascoltando del buon jazz mescolarsi alle voci di un poeta e di questa scrittrice. Avrebbe presentato il suo libro, Oltre la superficie delle cose. A causa degli orari impossibili dei treni, non ci andai. Fu una fortuna. Comprai il libro alla Mondadori di Vercelli e cominciai a leggerlo, piena di speranza e di aspettative. Per me la Letteratura ha la L maiuscola, é vitale, essenziale, importante. É passione. Sono veglie infuocate, sono albe congelate. Quando aspetto il treno in piedi, impietrita dal freddo, ad accendermi una tempesta neuronale con le nitide parole di un romanzo. Quando torno a casa e mi fermo un attimo ancora in stazione, su una scomodissima sporgenza di pietra un po’ nascosta dai cestini della spazzatura, per finire quel capitolo, con le parole che si accavallano e il senso che si concentra. E con lo stesso amore ho trattato anche il libro della Falanga, anche se non se lo meritava. Questo sarebbe il suo primo romanzo, ed é stato presentato come una delle rivelazioni giovanili del 2017. Balle. La Falanga non sa scrivere, ma quello che è peggio e che non le perdonerò mai, è che non ha voglia di farlo. In questo spolverino di una centoquarantina di pagine abbondano errori di ortografia, iterazioni che avrebbero voluto essere liriche, ma che rivelano un lessico povero di idiomi come le piante rinsecchite sul mio balcone. Sembra quasi che la Falanga abbia paura di scrivere, e che la cosa le metta talmente tanta ansia da rimanere ingabbiata in un formalismo elementare che rende le frasi banali, vuote, e impastate tutte di un Ego narrante che vuole filosofeggiare, ma a colpi di luoghi comuni. E ci sarebbe anche un senso, ma la compiacenza é talmente “troppa”, che alla fine se ne esce più infastiditi, che convinti. Manca poi, altra imperdonabilità, una chiara caratterizzazione dei personaggi, che sembrano tanti rigatoni fin troppo crudi messi a bollire dentro il pentolone di questo bisogno insopprimibile di filosofeggiare sulla vita, sul significato della propria vocazione, sul dolore necessario, sui miracoli, sui fantasmi. Ogni personaggio diviene un semplice involucro di pelle, alla Falanga non interessa che ci sia vita lá sotto, che debba esserci e che possibilmente sia vera. Non sono persone, sono pretesti per dirci la sua. Tuttavia, in questo raccontino lungo qualche cosa di buono, c’è. Come la lettera che Ettore scrive a Leonia, che finalmente dimostra scorrevolezza, senso, succo, e si legge tutta d’un fiato come un Ferrero Rocher. Forse la Falanga, liberatasi dalla gabbia del “dover scrivere un romanzo”, nella lettera ritrova una dimensione nuova, più rilassata, in cui la parola fluisce più elegante e naturale. O come le metafore sparse che ogni tanto ingemmano il romanzo, come il grano della pasta al pomodoro che fa l’amore con le papille gustative di Leonia, la cremina sabbiata e cremosa che galleggia dentro il vetro trasparente di un caffè di Napoli, o le foglie bagnate che dal salici piangenti di un sogno, si staccano dalle scarpe del controllore del treno, rimanendo a terra come tracce di speranza. A parte questo, un piattume che presto diventerà pattume. Speriamo che la Falanga abbia l’umiltà di capire che se si vuole Scrivere bisogna Leggere, e soprattutto, quando ci si prova, avere la pazienza di rivedere perlomeno quello che si partorisce. Fatevi un favore: non compratelo.

Giulia Casini