La figlia del boia – Oliver Potzsch #recensione #NeriPozza

Oliver Pötzsch è un giovane scrittore e sceneggiatore tedesco, con una storia familiare molto ricca e particolare dalla quale ha deciso di partire per il suo primo romanzo, uscito nel 2007, questo affascinante romanzo storico, dalla scrittura potente ed evocativa, che da noi, tradotto, è uscito come La figlia del boia.

La  figlia del boia ha un’ambientazione interessantissima e poco sfruttata nella letteratura di genere. Il lettore si ritrova subito catapultato nella Baviera del 1600, in una cittadina modesta, abitata da persone per lo più povere, dove campeggia una mentalità retrograda e avvezza a fagocitare le dicerie più insensate, dove la pena di morte è la risposta ad ogni problema e dove il mestiere del boia è una professione necessaria, come può essere quella del fornaio o del locandiere.

Il genere del romanzo storico è di per sè molto ostico, perché prima di tutto è difficile per uno scrittore rendere attraverso le pagine una visione realistica dell’epoca in cui la vicenda è ambientata. Serve una scrittura praticamente perfetta e una dovizia di particolari non da poco, il che presuppone una conoscenza profonda ed accurata del periodo storico, in cui ogni dettaglio ha la massima importanza. Oliver Potzsch, scrittore esordiente, centra l’obiettivo e ci regala un affresco della Baviera del XVII secolo che difficilmente potremmo dimenticare. Il protagonista, a dispetto del titolo, è il boia della città di Schongau. La figlia del boia infatti (lo dico per quelli che come me pensavano di incappare in una figura femminile) resta marginale alla storia, al punto che sono ancora qui a chiedermi il motivo di questa scelta di titolo.

Il boia del paese, si diceva, è l’uomo attorno al quale ruota tutto il romanzo. Chi di noi ha mai pensato che il boia potesse essere una figura così importante per una comunità? Chi di noi se l’è mai immaginato come un essere umano normale, sotto quel cappuccio nero e quelle braccia nerborute fatte per tagliare teste? Un uomo con sentimenti, opinioni politiche, con una moglie e dei figli che ama? Direi nessuno. L’originalità del romanzo sta proprio in questo, nell’aver messo in luce le caratteristiche di un mestiere completamente ignorato dalla storia. Prima di tutto, il boia all’epoca era un mestiere esclusivo: era ereditario, veniva portato in dono da una sorte malevola a cui nessuno si poteva sottrarre: il figlio di un boia avrebbe fatto il boia a sua volta, come suo padre prima di lui e come i figli a venire. Non c’era modo di ribellarsi: essere nati in una famiglia di boia significava avere il petto macchiato da un’onta terribile che nessun altro avrebbe mai portato per propria scelta. Era un uomo temuto ma al tempo stesso non rispettato: il popolo aveva paura di lui perché era la personificazione della morte, al suo passaggio c’era chi si faceva il segno della croce e chi abbassava lo sguardo. Ma era comunque un lavoro, e andava fatto. Così era la vita anche per Jakob Kuisl, il boia di Schongau, fino a quando la levatrice del paese viene arrestata con l’accusa di aver commesso l’omicidio di due bambini. Il periodo della caccia alle streghe è finito da poco ma in tutta la Baviera, così come nel resto dell’Europa. è ancora profondamente radicata la convinzione che alcune donne siano emissari del diavolo, sue amanti e complici. Le levatrici, con il loro mestiere, erano profonde conoscitrici delle erbe e del loro potere curativo che usavano in grande quantità per alleviare i dolori del parto o per curare semplici problemi femminili, e tanto bastava per destare il sospetto. Martha a causa del suo lavoro viene immediatamente additata come strega e in quanto tale considerata colpevole delle barbare uccisioni. Viene affidata al boia il quale deve estorcerle regolare confessione affinché possa essere messa al rogo. Ma il nostro boia è un uomo molto diverso da quello che sembra e soprattutto non crede alla sua colpevolezza. E’ un uomo giusto e buono, che lotta contro i pregiudizi e che aiuterà Martha con tutti i mezzi a sua disposizione per lasciarla in vita fino a quando il vero colpevole non verrà trovato. In paese il boia non è il solo a credere all’innocenza della levatrice: sua figlia, una bella ragazza testarda e anticonformista e un giovane medico affascinato dalle conoscenze del boia e dalla sensualità della giovane, inizieranno ad indagare per proprio conto per arrivare alla verità. La loro sarà una lotta contro il tempo per ribaltare una sentenza di morte già scritta solo per coprire persone per bene, per motivazioni politiche, per nascondere verità inconfessabili.

L’accuratezza della ricostruzione storica e la stupefacente figura del boia, uomo erudito, esperto erborista e senza dubbio più lungimirante dei personaggi che governano il paese, rende questo romanzo storico un piccolo capolavoro da leggere senza indugi se come me siete affascinati da ciò che non conoscete. E’ un romanzo davvero ben strutturato, con uno stile di scrittura scorrevole ma non banale, e un ritmo avvincente, che nonostante l’ambientazione storica esaustiva si lascia leggere con piacere.

Paola Castelli

DESCRIZIONE

Baviera, 1659. Sulla riva di un fiume nei pressi della cittadina di Schongau viene trovato agonizzante il figlio undicenne del barconiere Grimmer. Qualche tempo dopo i bottegai Kratz si imbattono, nel loro piccolo Anton, il figlio adottivo, immerso in un lago di sangue, la gola recisa con un taglio netto. Sotto una scapola del bambino viene trovato il medesimo segno del figlio del barconiere: il cerchio di Venere, il simbolo delle streghe.

Kate Manning, Una levatrice a New York

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E’ una storia liberamente ispirata alla vita di Madame Restell, una levatrice vissuta nel 1800 a New York diventata famosa perché praticava illegalmente l’aborto.
Incontriamo la prima volta Annie, la protagonista, quando ha 12 anni e insieme alla sorella e al fratellino più piccoli chiede l’elemosina sui marciapiedi di New York. Annie condivide la sorte di altre migliaia di piccoli disperati, bimbi abbandonati, figli di famiglie numerosissime, figli di prostitute che nell’800 popolavano la parte più a sud di Ny, vivendo per strada, cercando cibo tra i rifiuti, rubacchiando e chiedendo l’elemosina. Si calcola che fossero circa 35.000 bambini. Portati via alla madre, gravemente ammalata, i tre bambini finiscono su un treno per gli orfani, un convoglio che porta centinaia di creature verso Ovest, dove verranno venduti a famiglie: i più fortunati per diventati figli amati, la maggioranza per diventare animali da lavoro nelle fattorie, schiavi comprati a buon prezzo. “Bambini rimasti senza nessuno. Tutti quelli che desiderano acquistare un bambino sono pregati di chiedere”, dice il manifesto che pubblicizza l’arrivo del treno.

Tornata a Ny Annie diventerà dopo varie peripezie l’assistente di una levatrice fino a che, portando costantemente nel cuore il ricordo dei fratelli lontani e della madre morta di parto davanti ai suoi occhi, Annie inizierà lei stessa la sua carriera di levatrice. Insieme al marito intraprende una redditizia attività di vendita per corrispondenza di Rimedi Femminili, molti dei quali sono contraccettivi, la sua bravura come levatrice le porterà una nutrita clientela e, piano piano, porterà alla sua porta un numero sempre crescente di donne che le chiedono di interrompere la gravidanza che hanno in corso. E lei “le sistema” attirandosi le benedizioni di tante donne e le maledizioni di una società che vede nell’aborto l’opera del Diavolo, fino all’accanimento di un funzionario dell’Associazione per la Soppressione del Vizio, un ipocrita inquisitore che si vanta di aver spinto 15 persone da lui perseguitate a commettere suicidio.
È un libro molto crudo che descrive nei dettagli la sofferenza di un raschiamento eseguito con la sola anestesia di un bicchiere di whiskey e un pezzo di cuoio da mordere e mille altri particolari di un parto o di un aborto, fine agli strumenti utilizzati da donne disperate per procurarsi da sole un’interruzione di gravidanza e, in molti casi, la loro stessa morte.
Ma quello che racconta in modo molto efficace è soprattutto la disperazione di donne che non conoscono alternative alla gravidanza, che non hanno la possibilità di poterla evitare se vogliono o di interromperla se lo ritengono giusto perché il mondo le etichetterebbe automaticamente come sgualdrine. Il dolore di giovani donne di 25 anni con 5 o 6 figli, disperate e sfiancate dall’ennesima gravidanza che non possono evitare, donne messa incinta da uomini senza scrupoli che le abbandonano al loro destino, donne vittime di stupri, donne che saranno chiamate sgualdrine o criminali in una società che addossa a loro tutta la colpa, sempre e in qualsiasi caso. E’ il 1800, le donne devono ubbidire agli uomini, non hanno diritti e non hanno la minima possibilità di scegliere. Gli uomini non hanno la minima responsabilità.

Il ritratto che viene fatto di Annie non è del tutto positivo. Non è solo quello dell’eroina dura e pura motivata da alti ideali. Lei agisce anche perché e’ spinta dalla rabbia, dal bisogno di riscattare un’infanzia nell’inferno della miseria, dall’urgenza di accumulare denaro.
Però il rispetto che lei prova per ogni donna che bussa dolorante e impaurita alla sua porta è fuori discussione. Il rispetto per il loro dolore, la loro angoscia e l’assoluta mancanza di giudizio quale che sia la decisione presa dalle sue clienti rappresentano le parti più toccanti e più vere del libro e il reale messaggio di questa storia. Lei non fa propaganda all’aborto, ma approfitta di ogni occasione per fa sì che le donne che incontra sappiano dell’esistenza di metodi anticoncezionali (anche la distribuzione di materiale informativo è illegale nel 1860) perché possano avere la possibilità di scegliere.

È un libro a tinte forti, dai colori scuri. Secondo me soffre molto della traduzione. Ho l’impressione che l’originale, soprattutto nella prima parte, utilizzi molto lo slang dei quartieri poveri popolati da irlandesi. Questo linguaggio non è reso benissimo e alcuni dialoghi suonano un po’ strani, malgrado la ricostruzione storica sia particolarmente accurata e disegni in maniera molto vivida e ricca di sfumature la New York ottocentesca. Il titolo non è un granché.
Però è anche un libro che dà anche un’idea molto chiara, seppur romanzata, di dove siano iniziate lotte che hanno portato le donne della mia generazione, quella prima e quelle dopo, a poter decidere su un argomento che le riguarda completamente e del quale, per secoli, sono state considerate solo strumento. Quelle lotte che ci hanno portato a pensare, o avrebbero dovuto farlo, che quando si parla di gravidanza ogni scelta merita rispetto.
In ogni caso, al di là dei difetti di questo libro, quando ho iniziato a leggere non sono più riuscita a fermarmi.

“Ho avuto sette figli ma soltanto tre femmine sono nate vive e adesso ne aspetto un altro. Sono già mortalmente malata. Ho rischiato di morire, l’anno scorso, quando il nostro povero maschietto non è sopravvissuto. Eppure mio marito vuole terribilmente un figlio maschio e insiste che io continui a tentare, anche se ne ho già perduti quattro e probabilmente mi giocherei del tutto la salute, se lo facessi. E’ un peccato, so che è un peccato. Tuttavia…….signora Jones, potete aiutarmi?”

Anna LittleMax