“A cosa pensi?
Ai cani. Che vivono al massimo quattordici anni – rimase qualche secondo in silenzio. – Come noi. In quattordici anni fanno tutto. Nascono, crescono e muoiono. Alla fine non conta quanto dura la vita, ma come la vivi. Se la vivi bene, tutta intera, una vita corta vale quanto una lunga. Non credi?”
L’incrocio perfetto tra La strada e Il signore delle mosche: Anna rappresenta il primo romanzo distopico di Ammaniti. In un mondo devastato da un virus a cui resistono solo i bambini in età pre puberale, i pochi sopravvissuti si trovano a temporeggiare con la morte alla ricerca di una speranza qualunque. Anna e suo fratello Astor percorrono la Sicilia devastata dal virus e dalle sue conseguenze insieme a un amico di strada, Pietro, alla volta di Messina, per arrivare in Calabria, e una volta sul continente trovare una cura. Ma la strada presenta diversi imprevisti e la trama scorre così fluida e intrigante, lasciando il lettore attaccato alle pagine che scorrono veloci sotto gli occhi. Anna è il romanzo che mi serviva, è arrivato al momento giusto, quando stavo per sfiduciarmi, insabbiato fra due romanzi troppo lenti e volutamente oscuri. Ammaniti con umiltà riesce a dimostrare come la trama non abbia bisogno di grandi considerazioni, riflessioni o giochi di prestigio per scorrere vivida nella mente del lettore. Di sicuro ha agganciato e tenuto vivo il mio interesse per tutto il tempo e questo fa di Anna un buon libro, dimostrando quello che borbotto fra me e me da sempre: che un buon romanzo non ha bisogno di far perdere il lettore fra i meandri di un trama lacunosa, alla ricerca di un senso che forse si coglie solo dopo aver letto più di metà dell’opera. La struttura di un buon romanzo è come una macchina che va da sola, senza sforzi, spingendo il lettore naturalmente in avanti e se non lo fa, se non procede agevolando il lettore e facendolo scivolare verso la pagina successiva, manca il suo obiettivo principale, ovvero intrattenere, assorbendo il lettore altrove. Ammaniti con Anna mantiene la promessa: ci prende e ci porta via.
«L’amore è mancanza» ripete Anna quando pensa al corpo della mamma svuotato dal virus: l’aveva trovato nella stanza della casa dove la donna aveva deciso di morire senza essere vista dai figli. Anna l’aveva vegliata dalla porta, era entrata solo quando si era sentita pronta. Così l’aveva riconosciuta: la sua mamma era di una carne lieve, le ossa e i muscoli erano aria e lei aveva potuto trasportarla senza peso verso la sepoltura. Qui il figlio si fa genitore, qui Anna diventa grande. E si basta. Ammaniti la accompagna nella liturgia dell’addio, e nella consapevolezza del vuoto. Lasciando a noi il suo prodigio. (Marco Missiroli, Il Corriere)
Stefano Lilliu