Libro bello e significativo, anche se forse non scritto sempre a livelli eccelsi, che narra senza retorica nè buonismo l’India vista dal basso profondo degli slums e della casta dei servitori, un’India iniqua e classista in cui l’unica possibilità di riscatto arriva attraverso la violenza.
Amo molto la letteratura indiana contemporanea e le narrazioni dell’India moderna, che spesso sono affidate a una generazione di giovani cresciuti all’estero, ed educati in lingua inglese, come Aravind Adiga, giornalista e scrittore laureato alla Columbia, che con questo suo romanzo di esordio vinse il Man Booker Prize nel 2008, oggi anche film Netflix, nomination agli Oscars 2021 per la miglior sceneggiatura non originale.
La tigre bianca è la storia di Balram, nato nelle Tenebre – cioè l’India più cupa e schifosa, l’India dei villaggi di fango, della miseria più orrenda – e diventato un grande imprenditore, uno dei migliori «con i piedi in due staffe», «onesto e corrotto, cinico e devoto, scaltro e sincero», poco credente ma sempre pronto a «baciare i culi» dei 36 milioni di divinità contemplate, più quello del dio dei musulmani e quelli dei «tre dei cristiani». Balram ci racconta la sua storia, e al contempo ci spiega quali sono i segreti dello straordinario sviluppo del sub continente indiano: va avanti chi ha capito le regole del gioco della Nuova India. La corruzione innanzitutto, e poi il fatto che «ai vecchi tempi in India c’erano mille caste e mille destini. Adesso ci sono solo due caste: Uomini con Grandi Pance e Uomini con Piccole Pance». E anche un’altra cosa: il problema della servitù e dell’onestà, ovvero il fatto che «gli indiani sono il popolo più onesto del mondo», imprigionati in una Stia per polli, sempre pronti a servire i padroni, a beccare nella merda: «in questo paese una manciata di uomini ha addestrato il restante 99,9 per cento a vivere in un perenne stato servile; uno stato servile radicato al punto che se dai a un uomo la chiave della sua emancipazione lui te la scaglia addosso con un insulto». Perché gli indiani poveri obbediscono? «Per non vedere la propria famiglia distrutta – perseguitata, massacrata di botte, bruciata viva dai padroni». Balram con la sua visione diretta e sarcastica si ribellerà, con sangue e violenza, come ogni rivoluzione della storia ci insegna, a un destino in cui quelli della sua casta non hanno scampo, costretti fin dal momento della nascita ad avere un posto ben preciso in fondo alla piramide sociale, ad avere un padrone, ad avere una famiglia che li opprime.
Aravind Adiga ci accompagna mettendo da parte, con una scrittura serrata, i ritmi antichi e i profumi esotici cari a tanta letteratura angloindiana e sceglie una narrazione lucida e diretta, senza mediazioni, con interessanti approfondimenti sulla società indiana, sul contesto economico globale, sull’imprenditoria e l’outsourcing attuato dalle multinazionali.
Il cinismo che percorre tutta la storia di Balram può essere riassunto nella frecciata indiretta a The Millionaire di Danny Boyle, che il protagonista cita sostenendo che in India non ci sia nessuna scappatoia come un gioco a premi per sfuggire dalla povertà ma soltanto scegliendo di uscire dalla “stia per polli”, e cioè ribellandosi al padrone, costi quel che costi.
Davvero davvero consigliato.
Lorenza Inquisition
Seduto alla sua scrivania, l’imprenditore autodidatta Balram Halwai, detto la Tigre Bianca, scrive sette lucide e impietose lettere al primo ministro cinese che si appresta a visitare l’India. Gli racconta delle proprie origini e della propria storia: la storia di un ragazzo di una delle caste più basse che da un fangoso villaggio all’interno del paese (dove “ogni buona notizia si tramuta in una cattiva notizia, e in fretta”) arriva a New Delhi, dove mall luccicanti, sontuosi palazzi e auto tirate a lucido da magri autisti in ciabatte si accostano a bordelli di lusso con bionde prostitute dell’Europa dell’est. Qui, nel nuovissimo quartiere di Gurgaon, Balram Halwai assiste alla progressiva e inarrestabile corruzione del suo padrone, ne assimila la mentalità e intuisce che il modo per fuggire dalla gabbia della miseria esiste: commettere un omicidio, rubare e mettersi in proprio.