Aspetta primavera, Bandini – John Fante #JohnFante #Bandini

«Di una cosa sono sicuro: tutta la gente della mia vita di scrittore, tutti i miei personaggi si ritrovano in questa mia prima opera. Di me non c’è piú niente, solo il ricordo di vecchie camere da letto, e il ciabattare di mia madre verso la cucina».

Stavolta ho scritto anche il nome dell’autore in maiuscolo, perché merita davvero. Mi sono innamorata di Fante. E’ stato grazie al suo stile che mi sono innamorata di questo libro, e che sono pronta a leggere e gustare i successivi. Proprio oggi pomeriggio, dopo un primo fallimento alla libreria commerciale su una delle principali arterie del centro di Novara, mi sono spostata alla Lazzarelli, dove una commessa ha fatto volare dalla ringhiera del primo piano, dritto di copertina obliqua nel palmo nelle mani esperte dell’uomo disincantato, con i capelli ricci e con un lampo tormentato nello sguardo, proprio lui: La strada per Los Angeles, che già ad averlo tra le mani, con il dorso più spesso e le pagine dure, come se fosse stato preso a calci e a botte, e a leggere dopo qualche pagina la dichiarazione di Fante: se la letteratura ha bisogno di sangue e dolore, il suo appetito verrà saziato da The road to Los Angeles (Fante a McWilliams, luglio 1936), mi fa scorrere violentemente il sangue nelle vene, tanto da affaticare il cuore e rallentarlo, nello scivoloso e congelato sentiero verso la stazione.
Aspetta primavera, Bandini si avvolge intorno alle vicende di una famiglia poverissima di immigrati italiani di origine abruzzese, che vive emarginata in una casa ai limiti di Rocklin, paesino di diecimila anime in un Colorado ai piedi delle montagne. Non parlerò della trama, che è scarna e che ognuno può gustare da sé leggendosi direttamente il libro, piuttosto mi interessa dirvi la mia sullo stile.
Fante ti entra nell’anima, si mette a pulsare direttamente nel sangue, e ti trascina in un torrente narrativo maschio, rabbioso, pieno di emozione e di passione, con una parola che riesce allo stesso tempo a essere essenziale e possente, muscolosa e ricca, travolgente e risucchiante. Perdere i confini del tempo e dello spazio è obbligato, involontario, necessario, inevitabile. E se per caso ci si sentiva spenti, polverosi e piatti come la sottoscritta – costretta come sono a far scivolare l’agonia delle mie giornate dentro biblioteche piene di gente matta -, Fante ti scoppia nello stomaco come una fila di fucilate, ti attorciglia le budella come uno straccio e le getta nel mare incandescente, facendosi seguire dentro questo rigido inverno, di cui rende tutte le sfumature. E’ la natura, forse, la vera protagonista del romanzo, sia intesa come inverno contro il quale lottano questi poveri miserabili, sia come sentimenti che palpitano dentro il cuore dei due maschi più grandi, Svevo Bandini padre e Arturo Bandini figlio. Mi ha colpita la capacità di Fante di rendere memorabile ogni minima sfumatura della miseria di questa famiglia, scovando la bellezza in ogni singolo angolo di polvere, in un letto sempre sfatto sul quale aleggia l’intenso e acre odore paterno, in un pollo arrosto cucinato per cena, nel cimitero di pietre vicino al salice piangente, nel bucato rigido messo a stendere sul vialetto, in una stufa infernale che scoppietta iraconda di fuoco rosso e giallo, in una piccola stella ghiacciata di neve che si scioglie sul dorso della mano di un adolescente, nelle bande del cielo macchiate di sangue, in una donna troppo piena di Dio dentro di sé, in un ragazzo arrabbiato che fa a pugni con il mondo per gridare di non essere diverso, di non essere italiano, di non essere povero. In un padre muratore che anche se non ha niente, rimane attaccato come l’ultimo pezzo di carne all’osso delle sue valorose convinzioni, fino a scegliere la povertà più totale pur di mantenere intatto il suo onore di uomo, di italiano, di cittadino americano, di marito, e di padre. Quello che colpisce della famiglia Bandini è la sua cruda verità, che si staglia come uno schiaffo contro tutto l’oro e l’ipocrisia del mondo. L’onestà spietata e toccante dei sentimenti nudi e veri.
Le altre volte sono riuscita meglio a scrivere, avevo una specie di trama ordina e stampata nella testa, ho seguito la vena dell’ispirazione e ho scritto. Stavolta però sono stata agganciata di pancia, per cui mi perdonerete ma tutto quello che non ho scritto mi è rimasto incastonato dentro, come una fiaccola accesa dentro una candela di vetro.

“Presto arriverà la primavera, – disse.
– Certo! –
In quello stesso istante, qualcosa di freddo e minuscolo gli sfiorò il dorso della mano. Lo guardò sciogliersi, un piccolo fiocco di neve, a forma di stella…”

Giulia Casini

DESCRIZIONE

Arturo Bandini ha 14 anni, abita in America, in uno sperduto paesino sulle montagne e possiede una slitta. Per il resto avrebbe preferito chiamarsi John, e di cognome, al posto di Bandini, Jones. Sua madre e suo padre sono italiani immigrati, ma lui avrebbe preferito essere americano. Poi c’è nonna Toscana che considera il genero Svevo, padre di Arturo, un mezzo fallito e la figlia Maria una povera pazza perché lo ha sposato. I Bandini non se la passano bene, anzi: non c’è proprio nulla di quel che accade sotto gli occhi sognanti del piccolo Arturo che non porti il segno di un’atavica, metafisica, inguaribile fame italiana. Tanto che nel mazzetto di parole americane che circolano in famiglia, l’espressione «chiedi se ti fa credito» è di gran lunga la piú usata.
Tragedia, o ancor meglio, commedia dell’immigrazione e dello spaesamento, delle radici e della smania di libertà, Aspetta primavera è il romanzo della riconciliazione col mondo delle proprie tradizioni e, al tempo stesso, l’eroico tentativo di congedarsene

Acqua nera – Joyce Carol Oates #JoyceCarolOates #AcquaNera #recensione

La Toyota a noleggio, guidata con impaziente esuberanza dal Senatore, filava lungo la strada sterrata senza nome, imboccando le curve con vertiginose sbandate, strisciando sul terreno, poi, all’improvviso, uscì chissà come di strada per finire nell’impetuosa acqua nera dove, inclinata sul lato destro, affondò rapidamente.
Devo morire?… così?

Il 18 luglio 1969 l’allora senatore Ted Kennedy perdeva il controllo della sua auto sulla quale viaggiava con la sua segretaria Mary Jo Kopechne. L’auto finì in un canale, il senatore si salvò, la ventottenne segretaria rimase intrappolata a morire in attesa dell’arrivo dei soccorsi che furono mandati non appena il senatore avvertì le autorità, circa 10 ore dopo.
Da questo drammatico fatto di cronaca Joyce Carol Oates parte per raccontare la fine di Kelly Kelleher, alter ego della povera segretaria, e del suo personale dramma nel momento in cui l’auto attraversa il nero specchio d’acqua dell’ Indian River. Il passato ed il futuro si impastano nel presente, dal pensiero di Kelly scopriremo tutta la storia, tutti gli eventi che l’hanno portata a quel momento fatale vengono rivisti, ancora ed ancora, eternamente presenti, Kelly si ferma in quell’attimo per sempre, aspettando invano l’intervento del senatore che nel frattempo si preoccupa di sistemare le cose ed evitare lo scandalo.

Ho appena finito di leggere un altro libro dell’immensa Oates, ACQUA NERA” ed. Anabasi. Io aggiungerei il personale sottotitolo “Cronaca della morte di una Donna“. A caldo ho scritto quello che ne pensavo, sperando che a qualcuno venga voglia di leggerlo. E’ breve e claustrofobico, uno dei libri preferiti, giustamente, da Fernanda Pivano.

Ingenua, insicura, borghese ed istruita, impegnata, pulita, educata. Per l’anagrafe: Elizabeth Anne Kelleher; per tutti noi: Kelly, la protagonista di questo libro. Joyce Carol Oates vuol dare a questa ragazza, morta in un incidente d’auto subìto, l’importanza che la cronaca reale non le ha dato. Per tutti, per i giornali, la definizione semplice che la inquadra nella morte è “la segretaria di…“, perchè sono impegnati a ricordare l’episodio, solo per l’altro protagonista dell’incidente stesso, maschio, famoso e potente e… cristo santo: illeso! Niente meno che un Kennedy,  (Ted). Ma per Kelly che sta per morire, per Carol Joyce, per me e tanti lettori e lettrici, qui soltanto il senatore. Un omuncolo, che messo alla prova di umanità, si rivela piccolo, vile, cinico, freddo, egoista. Tale e quale a quegli occhi azzurri intensi, “come vetro colorato, con niente dietro”. L’autrice è impietosa con lui, ma in fondo,  come potrebbe non esserlo? Da una parte, a ondate ci fa rivivere i flashback che la mente sofferente della vittima, fa della sua vita. Kelly, eccelsa in nulla, una normale, brava ragazza americana, come tante, che crede, dopo una batosta subita da un altro uomo più grande, che per una volta la fortuna girerà a suo favore.

“Povero Scorpione, così facile da ferire. Così facile da dissuadere… quando il suo amico l’aveva amata lei era bella. Quand’era bella il suo amico l’aveva amata”.

La sua colpa (non lo è, in realtà. Ma penso che la Oates rifletta sul suo puritano Paese e faccia dire a Kelly molte parole per giustificare la sua presenza accanto a quest’uomo nell’ultimo giorno della sua vita, a genitori, amici e spettatori) averci creduto, aver seguito senza una ragione avrebbe detto De Andrè, un uomo, sostanzialmente a lei sconosciuto, “conoscenti freschi, freschi, il che equivale ad essere estranei”, ma potentissimo e famoso, che al momento dell’incidente però fugge e non le presta soccorso, lasciandola agonizzante in quelle acque nere, preoccupato solo di ripulirsi, con scuse e bugie che coprano il possibile scandalo. Con un cognome altisonante, ma inchiodato dalla scena principe del libro dalla Oates, che a futura memoria, ci descrive quest’uomo che, per crudele contrappasso, ripetutamente definisce SCONOSCIUTO, scappa dall’incidente. L’autrice sembra voler dar giustizia e vendicare la memoria della povera ragazza, aggrappata ancora alla gamba del senatore, nella speranza di uscire dalla trappola di una macchina impantanata nello stagno, ricevendo, in cambio, dei calci scomposti. Quell’uomo, in TV così carismatico, (“che parola stupida”), che parlava con Kelly e i suoi amici “come fossero” suoi pari, quell’uomo che ha scelto, dopo un po’ di birre, proprio lei, baciandola, per quel piccolo viaggio che la morte ha interrotto. Mosso, come talvolta fanno gli uomini, dal “bisogno di vedere, di sentire quella piccola fitta di dolore nei vostri occhi (di donne)”; negli occhi della povera piccola Kelly, il cui cuore assurdamente perse un battito e il cui volto s’infiammò nel sentire che il senatore in persona l’aveva chiamata per nome, così disinvoltamente, così intimamente, come se mi conoscesse, come se provasse affetto per me. Kelly chenon può credere che lui si sia allontanato e l’abbia lasciata lì (a chiedere aiuto naturalmente) a morire da sola (Ma lui non le aveva forse promesso? sì. Ma lui non l’aveva forse abbracciata, baciata? sì…nessun dolore! nessun dolore!), mentre l’acqua nera filtra in quello spazio che la racchiude come un utero…acqua che puzzava di fogna, di benzina, di gasolio, della sua stessa urina, il cervello stesso stava imbarcando acqua sporca: lui l’aveva colpita, è vero, con dei calci, ma era panico. Lei lo capiva. Aveva fiducia.
Di questo parla la Oates: del tradimento della fiducia, di quanto ti faccia scendere lì, in quel buco nero, quando lo subisci, incapace fino alla fine di accettarlo come possibile, come un bimbo che supplica: “Aiutami. Non dimenticarmi. Sono qui.”

“Mentre l’acqua nera le riempiva i polmoni e lei moriva.”

Terribile. Bellissimo.

Alessandra Gianardi