«Di una cosa sono sicuro: tutta la gente della mia vita di scrittore, tutti i miei personaggi si ritrovano in questa mia prima opera. Di me non c’è piú niente, solo il ricordo di vecchie camere da letto, e il ciabattare di mia madre verso la cucina».
Stavolta ho scritto anche il nome dell’autore in maiuscolo, perché merita davvero. Mi sono innamorata di Fante. E’ stato grazie al suo stile che mi sono innamorata di questo libro, e che sono pronta a leggere e gustare i successivi. Proprio oggi pomeriggio, dopo un primo fallimento alla libreria commerciale su una delle principali arterie del centro di Novara, mi sono spostata alla Lazzarelli, dove una commessa ha fatto volare dalla ringhiera del primo piano, dritto di copertina obliqua nel palmo nelle mani esperte dell’uomo disincantato, con i capelli ricci e con un lampo tormentato nello sguardo, proprio lui: La strada per Los Angeles, che già ad averlo tra le mani, con il dorso più spesso e le pagine dure, come se fosse stato preso a calci e a botte, e a leggere dopo qualche pagina la dichiarazione di Fante: se la letteratura ha bisogno di sangue e dolore, il suo appetito verrà saziato da The road to Los Angeles (Fante a McWilliams, luglio 1936), mi fa scorrere violentemente il sangue nelle vene, tanto da affaticare il cuore e rallentarlo, nello scivoloso e congelato sentiero verso la stazione.
Aspetta primavera, Bandini si avvolge intorno alle vicende di una famiglia poverissima di immigrati italiani di origine abruzzese, che vive emarginata in una casa ai limiti di Rocklin, paesino di diecimila anime in un Colorado ai piedi delle montagne. Non parlerò della trama, che è scarna e che ognuno può gustare da sé leggendosi direttamente il libro, piuttosto mi interessa dirvi la mia sullo stile.
Fante ti entra nell’anima, si mette a pulsare direttamente nel sangue, e ti trascina in un torrente narrativo maschio, rabbioso, pieno di emozione e di passione, con una parola che riesce allo stesso tempo a essere essenziale e possente, muscolosa e ricca, travolgente e risucchiante. Perdere i confini del tempo e dello spazio è obbligato, involontario, necessario, inevitabile. E se per caso ci si sentiva spenti, polverosi e piatti come la sottoscritta – costretta come sono a far scivolare l’agonia delle mie giornate dentro biblioteche piene di gente matta -, Fante ti scoppia nello stomaco come una fila di fucilate, ti attorciglia le budella come uno straccio e le getta nel mare incandescente, facendosi seguire dentro questo rigido inverno, di cui rende tutte le sfumature. E’ la natura, forse, la vera protagonista del romanzo, sia intesa come inverno contro il quale lottano questi poveri miserabili, sia come sentimenti che palpitano dentro il cuore dei due maschi più grandi, Svevo Bandini padre e Arturo Bandini figlio. Mi ha colpita la capacità di Fante di rendere memorabile ogni minima sfumatura della miseria di questa famiglia, scovando la bellezza in ogni singolo angolo di polvere, in un letto sempre sfatto sul quale aleggia l’intenso e acre odore paterno, in un pollo arrosto cucinato per cena, nel cimitero di pietre vicino al salice piangente, nel bucato rigido messo a stendere sul vialetto, in una stufa infernale che scoppietta iraconda di fuoco rosso e giallo, in una piccola stella ghiacciata di neve che si scioglie sul dorso della mano di un adolescente, nelle bande del cielo macchiate di sangue, in una donna troppo piena di Dio dentro di sé, in un ragazzo arrabbiato che fa a pugni con il mondo per gridare di non essere diverso, di non essere italiano, di non essere povero. In un padre muratore che anche se non ha niente, rimane attaccato come l’ultimo pezzo di carne all’osso delle sue valorose convinzioni, fino a scegliere la povertà più totale pur di mantenere intatto il suo onore di uomo, di italiano, di cittadino americano, di marito, e di padre. Quello che colpisce della famiglia Bandini è la sua cruda verità, che si staglia come uno schiaffo contro tutto l’oro e l’ipocrisia del mondo. L’onestà spietata e toccante dei sentimenti nudi e veri.
Le altre volte sono riuscita meglio a scrivere, avevo una specie di trama ordina e stampata nella testa, ho seguito la vena dell’ispirazione e ho scritto. Stavolta però sono stata agganciata di pancia, per cui mi perdonerete ma tutto quello che non ho scritto mi è rimasto incastonato dentro, come una fiaccola accesa dentro una candela di vetro.
“Presto arriverà la primavera, – disse.
– Certo! –
In quello stesso istante, qualcosa di freddo e minuscolo gli sfiorò il dorso della mano. Lo guardò sciogliersi, un piccolo fiocco di neve, a forma di stella…”
Giulia Casini
DESCRIZIONE
Arturo Bandini ha 14 anni, abita in America, in uno sperduto paesino sulle montagne e possiede una slitta. Per il resto avrebbe preferito chiamarsi John, e di cognome, al posto di Bandini, Jones. Sua madre e suo padre sono italiani immigrati, ma lui avrebbe preferito essere americano. Poi c’è nonna Toscana che considera il genero Svevo, padre di Arturo, un mezzo fallito e la figlia Maria una povera pazza perché lo ha sposato. I Bandini non se la passano bene, anzi: non c’è proprio nulla di quel che accade sotto gli occhi sognanti del piccolo Arturo che non porti il segno di un’atavica, metafisica, inguaribile fame italiana. Tanto che nel mazzetto di parole americane che circolano in famiglia, l’espressione «chiedi se ti fa credito» è di gran lunga la piú usata.
Tragedia, o ancor meglio, commedia dell’immigrazione e dello spaesamento, delle radici e della smania di libertà, Aspetta primavera è il romanzo della riconciliazione col mondo delle proprie tradizioni e, al tempo stesso, l’eroico tentativo di congedarsene