Mi chiamo Lucy Barton – Elizabeth Strout #recensione #elizabethstrout #lucybarton

Ci sono diverse chiavi di lettura per questo libro di Elizabeth Strout. Lo si può vedere in termini di rapporti conflittuali tra madre e figlia, come pure considerare il romanzo di un amore familiare complesso e contorto. E’ anche una lezione di scrittura dove l’insegnante è uno dei personaggi secondari del libro, una scrittrice di successo, che spiega a Lucy, l’Io narrante, come raccontare una storia. La sua storia, l’unica che le appartiene e che potrà raccontare. E’, anche, un romanzo dalle tante diramazioni dove dal tronco della storia principale partono i rami di brevi storie secondarie in una struttura che ricorda Olive Kitteridge.
Ma quello che si sente in modo particolare in questo libro, per citare la quarta di copertina, è l’assordante rumore del non detto. Il peso di un’infanzia di privazioni e di violenze, il sospetto mai dichiarato di abusi, il ricordo di episodi che la protagonista non saprebbe dire se veri o sognati, persi nella nebbia del tempo e della distanza. Un passato del quale non si parla, al quale non è permesso accennare. Questo gigantesco silenzio è ciò che lega madre e figlia nel breve tempo trascorso insieme dopo anni di lontananza. La madre non perdona alla figlia l’essersi allontanata dalla famiglia trovando rifugio nell’università. Non le perdona aver cercato di diventare diversa, di essersi “allontanata dalla feccia”, di essere diventata migliore. O aver avuto la presunzione di provarci.
Lucy brama inutilmente una parola d’affetto da parte della madre, quel ti voglio bene che la donna non dirà nemmeno sul letto di morte ed è talmente affamata di affetto dall’innamorarsi di ogni singolo gesto gentile di qualsiasi sconosciuto.
Eppure c’è amore tra queste due donne, c’è tenerezza. Elizabeth Strout ci mostra l’una e l’altra in quel suo modo speciale e devastante che ha di raccontarci la sofferenza, senza esprimere giudizi.
Non ho amato Lucy Barton come ho amato Olive Kitteridge, però penso che la Strout ci abbia regalato un’altra magnifica prova di scrittura.

Anna Massimino

Stoner – John Williams #Stoner

stoner

Ciao a tutti, ben ritrovati. Da un po’ non scrivo qui nel gruppo. Ultimamente ho letto poco e male, salvo aver rispolverato l’amato Paul Auster che non manca mai di darmi grandi soddisfazioni.
La settimana scorsa ho affrontato un libro che avevo in lista da tanto tempo. Non è certo una novità, Stoner, immagino che molti tra di voi lo abbiano letto e probabilmente amato e non saprei cosa aggiungere alle tante parole che sono state spese a proposito di questo libro. Sullo scaffale della libreria, quando l’ho comprato, c’era un altro testo: L’uomo che scrisse il romanzo perfetto di Charles Shields. Il romanzo è Stoner, l’uomo è il suo autore John Williams.
Ora, se Shields ha riempito 323 pagine per spiegarci la perfezione di questo libro, cosa mai resta da aggiungere? Se anche vi dicessi che era non so quanto tempo che non rimanevo sveglia fino all’alba non perché volessi conoscere il finale (l’autore ci svela il finale a pagina 1) ma perché lasciare Stoner mi avrebbe causato una devastante malinconia…cosa cambierebbe? Niente.
Se vi dicessi che dopo aver letto Stoner non sono riuscita ad aprire un altro libro per giorni interi, tentata com’ero di ricominciare da capo, cosa cambierebbe? Niente.
Se vi dicessi che questo libro contiene una storia semplice e lineare, ma di una semplicità e linearità Straordinarie, cambierebbe qualcosa?
Niente.
Se vi dicessi che ho rimandato a lungo la lettura di Stoner perché le lodi sperticate che leggevo a destra e a manca mi lasciavano perplessa più che incuriosirmi, cambierebbe qualcosa? Niente, se non farvi capire che sono un po’ sciocca.
Faccio mie le parole di Tom Hanks che compaiono in quarta di copertina ( c’è senz’altro una ragione se Tom Hanks viene citato in quarta di copertina, ma non saprei quale. E detto per inciso, penso che Tom Hanks possa dirmi la sua su tutto quello che gli pare): “Questo è semplicemente un romanzo che parla di un ragazzo che va all’università e diventa un professore. Eppure è una delle cose più affascinanti che vi capiterà mai di leggere”.

Ben detto, zio Tom, molto ben detto.

Anna Massimino

DESCRIZIONE

William Stoner is born at the end of the nineteenth century into a dirt-poor Missouri farming family. Sent to the state university to study agronomy, he instead falls in love with English literature and embraces a scholar’s life, so different from the hardscrabble existence he has known.

And yet as the years pass, Stoner encounters a succession of disappointments: marriage into a “proper” family estranges him from his parents; his career is stymied; his wife and daughter turn coldly away from him; a transforming experience of new love ends under threat of scandal. Driven ever deeper within himself, Stoner rediscovers the stoic silence of his forebears and confronts an essential solitude.

John Williams’s luminous and deeply moving novel is a work of quiet perfection. William Stoner emerges from it not only as an archetypal American, but as an unlikely existential hero, standing, like a figure in a painting by Edward Hopper, in stark relief against an unforgiving world.