Canne al vento – Grazia Deledda #GraziaDeledda

Visto che leggo da tanto tempo e passati 10 anni dalla lettura di un libro proprio volendo essere ottimisti non mi ricordo che brevi lampi dei libri letti, ho deciso di rileggere, almeno tutti quei libri di cui sono sicura valga la pena e sono così tanti che non so se avrò vita a campare. Ma ci si prova. E inoltre scopro nelle varie fasi dell’età che effetto mi fanno.

La vita passa e noi la lasciamo passare come l’acqua del fiume, e solo quando manca ci accorgiamo che manca.

Canne al vento è un romanzo appartenente alla fase matura della produzione letteraria di Grazia Deledda. Pubblicato originariamente a puntate nel 1913 sulla rivista L’illustrazione italiana, esce nello stesso anno anche per Treves, che all’epoca era in uno dei suoi periodi di più intensa attività editoriale.

La storia è ambientata a Galte (Galtellì nella realtà), dove le tre sorelle Pintor – Ruth, Ester e Noemi – vivono nel palazzo della loro nobile famiglia ormai in declino. Il servo Efix, fedelissimo alla casata, lavora per le sorelle con accanimento e fedeltà morbose, il suo unico obiettivo è proteggerle. Quando al paese arriva Giacomo, il loro nipote, porterà le zie sull’orlo della rovina finanziaria. Il servo lotterà strenuamente per evitare il tracollo e solo in punto di morte vedrà realizzati i propri sforzi attraverso la capacità di accettare il castigo come unica via di purificazione. I temi principali del romanzo, che poi sono anche i temi dell’intera opera di Deledda, sono quelli della colpa e del peccato, che è tutto concentrato sul personaggio di Efix. Il titolo dell’opera allude al tema profondo della fragilità umana e del dolore dell’esistenza; in questa direzione mobilita le riflessioni e le fantasie di un eroe protagonista, come un primitivo, un semplice, assai simile al pastore errante dell’Asia leopardiano o a uno degli umili manzoniani. Il rapporto di similitudine tra la condizione delle canne e la vita degli uomini, celebrato nel titolo del romanzo, proviene da un’opera (Elias Portolu) del 1903: Uomini siamo, Elias, uomini fragili come canne, pensaci bene. Al di sopra di noi c’è una forza che non possiamo vincere.

Deledda non distingue i personaggi in buoni e cattivi: appartengono tutti a un unico insieme umano, in cui non ci sono eroi o eroine, ma solo uomini e donne in balia del vento. Grande topos deleddiano, il vento è forse l’unico vero protagonista del romanzo, che inizia proprio con la metafora degli uomini sbattuti come canne al vento. Deledda non ha parti da cui stare, neppure coloriture politiche. Descrive, ora con osservazioni ora con dettagli la vita, la morte, il delitto e il castigo. Lei c’era lì, a registare i fatti. E noi con lei.
La scrittura della Deledda è a tratti molto lirica, forse anche atipica per il suo tempo: anzichè assomigliare ai siciliani veristi celebri durante i suoi stessi anni, ricorda i poeti di un’altra isola e di altri tempi: W.B. Yeats e Seamus Heaney, e l’Irlanda mistica del primo e fangosa del secondo.

Molto potenti e poetiche anche le descrizioni dell’ambiente e delle situazioni.

“La luna saliva davanti a lui, e le voci della sera avvertivano l’uomo che la sua giornata era finita. Era il grido cadenzato del cuculo, il zirlio dei grilli precoci, qualche gemito d’uccello; era il sospiro delle canne e la voce sempre più chiara del fiume: ma era soprattutto un soffio, un ansito misterioso che pareva uscire dalla terra stessa; sě, la giornata dell’uomo lavoratore era finita, ma cominciava la vita fantastica dei folletti, delle fate, degli spiriti erranti. I fantasmi degli antichi Baroni scendevano dalle rovine del castello sopra il paese di Galte, su, all’orizzonte a sinistra di Efix, e percorrevano le sponde del fiume alla caccia dei cinghiali e delle volpi: le loro armi scintillavano in mezzo ai bassi ontani della riva, e l’abbaiar fioco dei cani in lontananza indicava il loro passaggio.”

Tutto il romanzo è intriso di forte pathos, il peso del destino appare ineluttabile e un qualcosa contro cui è impossibile lottare. Canne al Vento è stato scritto nel 1913: un secolo fa. Un mondo di problemi che poco o nulla somigliano ai nostri. Eppure, citando Dacia Maraini «è un libro che si legge di un fiato e di un gusto che non appassisce». L’attualità è nella regia dei drammi psicologici, in un territorio senza tempo. Dove si svolgono le tragedie umane.

“Ma perché questo Efix, dimmi, tu che hai girato il mondo, è da per tutto così? Perché la sorte ci stronca così come le canne?
Sì, egli disse allora, siamo proprio come le canne al vento, donna Ester mia, siamo canne e la nostra sorte è il vento.”

Raffaella Giatti

Tumbas. Tombe di poeti e pensatori – Cees Nooteboom

tumbas

Lo dico subito: libro stupendo. Ho appena girato l’ultima pagina e già mi manca.

Cees Nooteboom, scrittore e poeta olandese, ha avuto un’idea che è una meraviglia e un omaggio sterminato insieme.
E’ una Spoon River dei poeti estinti. Un viaggio interminabile che Nooteboom ha compiuto per tutto il globo terrestre, alla ricerca delle tombe di scrittori e poeti del cuore, del suo e anche del nostro, almeno in parte. Lo ha fatto per se stesso, prima che per noi, ma è un grande regalo.

Quindi non tombe comuni, ma tombe davvero speciali. Tombe con cui puoi dialogare, da cui puoi ancora ascoltare, potenti, commoventi, le voci di chi è sepolto lì sotto. Persone uniche. Persone elette. Persone che non abbiamo mai avuto la fortuna di conoscere personalmente, ma con le quali qualcuno di noi sente un legame comunque fortissimo. E Nooteboom in più le ha conosciute, diverse di loro. Quindi i suoi ricordi sono in molti casi fortissimi, e le sue sensazioni acuite, si avverte ammirazione sconfinata, si avverte anche il legame dell’amicizia strappata, ma eternamente viva, unita a un’inestinguibile debito di riconoscenza, letteraria e umana.
E’ un viaggio che costruisce una biblioteca dell’ideale. Che quasi mette in comunicazione tra di loro poeti e scrittori, è un filo rosso, questo viaggio, che unisce, sorprende, regala.
E’ anche un viaggio che è autobiografia, di Nooteboom e anche di sua moglie, è anche autobiografia di coppia, è Simone Sassen, infatti, la fotografa e la sua compagna, ad immortalare le tombe e le lapidi visitate. E’ bello anche per questo particolare, il libro, le immagini delle lapidi aprono il discorso sui poeti, sono come un portale verso le loro voci, è qui, la vera magia: si viaggia alla ricerca dei sepolcri, si pronunciano i nomi che vi sono incisi, e si spalanca il mondo magico delle loro opere. Non è un viaggio verso la morte, è un’apertura alla vita, i loro scritti saltano fuori dalla terra e si dispiegano nell’universo, immortali.
Siamo lì con Nooteboom, mentre cita, mentre si emoziona, mentre si commuove, mentre ironizza con rispetto, siamo lì in raccoglimento profondissimo.
Vediamo le tombe e conosciamo particolari inediti, a volte sorprendenti, siamo di fronte a sepolcri sontuosi ma anche a tombe quasi dimenticate, nascoste, come se qualche poeta fosse stato davvero dimenticato un momento dopo la morte. Ci sono poeti che si mostrano, altri che giocano a nascondersi, più o meno come in vita, si celano dietro piante, fiori, arbusti, erbe. Molti riposano uno accanto all’altro, e magari chissà quanto sparleranno di noi e del nostro mondo attuale.
Ma sono gli epitaffi, a farli rivivere, comunque.
Nooteboom commenta in modo personale ogni foto della sua compagna, appunti di viaggio, ricordi personali, oppure inserisce brani di altri scrittori, o sceglie un brano del defunto, il più adatto a commemorare se stesso, in certi casi. Perchè molti di loro han preparato in vita la loro stessa dipartita.

Non so proprio come spiegarlo, ma mi sono emozionato come se fossi lì con lui, a scostare rami e foglie, per leggere il nome del poeta defunto sulla lapide, mentre magari pioveva a dirotto,e fa un freddo cane, perché “i cimiteri hanno qualcosa a che fare con le previsioni meteorologiche” oppure a Napoli, travolto e infastidito dal frastuono del traffico che oltraggia la tranquillità che avrebbe desiderato Virgilio, sono lì a trasalire di sdegno per gli insulti neri nazisti sulla tomba di Brecht, a scostare l’arbusto che copre il nome di Italo Calvino e a ridargli la luce, a leggere la forza infuriata della firma di Canetti, uno che non avrebbe voluto morire mai, a passeggiare nella via dove è nato Cervantes, dove il tempo sembra essersi fermato, e a sperare che questo Genio possa ricomparire dar voce a quei “disparati pensieri” derivati dal suo “sterile ed incolto ingegno”, a commuovermi sulla lapide di Cortazar, commosso soprattutto dal racconto di Nooteboom sull’ultimo viaggio di Julio con sua moglie Carol, condannata dalla malattia, di nuovo a commuovermi per le sue parole sulla Divina Commedia di Dante: “Ho letto molte volte la Commedia… per quanto mi riguarda, mi ha accompagnato per tanti anni e so che appena l’aprirò, domani, scorgerò cose che non ho visto sino ad ora. So che questo libro andrà oltre la mia veglia e le nostre veglie”. E poi a Napoli, con Leopardi, Napoli che “lo attraeva come la stella attrae il pianeta”, seduto al caffè con lui, che si sentiva a suo agio nell’essere essere anonimo in mezzo alla folla, un gobbo tra la folla sognando di esserne parte. Con Melville, tanto bistrattato e non considerato in vita, in un doloroso contrasto con un presente che lo vede risiedere trionfale in tutte le biblioteche e tutte le librerie del mondo, un bellissimo e terribile contrasto… Siamo con quei duecento uomini a scavare un sentiero in poche ore per seppellire Stevenson sul monte Vaea, e poi con Eliot, Goethe, Holderlin, tutta una fila di emozioni che non sono in grado di mettere su carta. Anche perché ho gli occhi lucidi, da quando ho iniziato a scriverne.

Leggetelo. Leggete la prefazione. Perché è già da lì, che ho capito con chi avevo a che fare, ho capito la magia degli scrittori, ho capito che non moriranno mai. Ho capito il paradosso di Nooteboom, che dice che nella tomba di un poeta c’è tutto e non c’è niente. C’è niente, perché il corpo non esiste più, ma c’è tutto, perché basta leggerne il nome e il lettore parte per un viaggio mentale e sentimentale, tutte le parole lette gli si gettano dentro il cuore, e tutto diventa possibile. Ecco perché tanti hanno visitato quelle tombe e hanno lasciato un fiore, una boccetta di profumo, una lettera. E’ il gioco descritto da Cortazar, due persone che giocano a tennis con una palla immaginaria. E lo spettatore che raccoglie la palla inesistente finita in tribuna e gliela rilancia. Chi non crede in questa magia, non lascia fiori , non lascia una bottiglia di vino sulla tomba di un poeta, non lascia ardenti rossetti sulla lapide di Oscar Wilde.

“L’essenziale resta invisibile. Il segreto si nasconde nelle lettere che nessuno leggerà. Una balena a New York, un cacciatore delle Alpi ad Anversa, l’inferno a Ravenna, una chitarra azzurra ad Hartford, Connecticut, la collina dell’infinito a Napoli: il lettore vede sulla tomba del suo poeta quel che non vede nessun altro”.

Musica: Time, The Alan Parson Project
https://www.youtube.com/watch?v=cZX8u1eCXzo

Carlo Mars