Le città invisibili, Italo Calvino

Maria Teresa Di Pace: Ma, a pensarci bene e neanche troppo a lungo, la mia città sono i corsivi: quel continuo specchiarsi di un imperatore e di un viaggiatore di città invisibili e tessere il medesimo filo, nel commovente tentativo vano di tracciare un disegno così sottile da sfuggire al morso delle termiti ma anche di approdare al gesto rischioso, più piccolo ma meno vano, di imparare a riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

Sonia Patania … Pur sapendo di escludere altri suoi libri meravigliosi, questo resta per me il più bello insieme a “Lezioni americane” che, vorrei dirlo, ha proprio modificato alcune mie prospettive fornendomi insegnamenti che mi sento di definire vitali…

 Maria Teresa Di Pace: Rieccomi. Mi sono impegnata e ovviamente persa tra le città invisibili. Devo dire che potrei scegliere la Eufemia di Luca, ma non sarebbe elegante e allora scelgo Zaira.
“Inutilmente, magnanimo Kublai, tenterò di descriverti la città di Zaira dagli alt
i bastioni. Potrei dirti di quanti gradini sono le vie fatte a scale, di che sesto gli archi dei porticati, di quali lamine di zinco sono ricoperti i tetti; ma so già che sarebbe come non dirti nulla. Non di questo è fatta la città, ma di relazioni tra le misure del suo spazio e gli avvenimenti del suo passato: la distanza dal suolo d’un lampione e i piedi penzolanti d’un usurpatore impiccato; il filo teso dal lampione alla ringhiera di fronte e i festoni che impavesano il percorso del corteo nuziale della regina; l’altezza di quella ringhiera e il salto dell’adultero che la scavalca all’alba; l’inclinazione d’una grondaia e l’incedervi d’un gatto che si infila nella stessa finestra; la linea di tiro della nave cannoniera apparsa all’improvviso dietro il capo e la bomba che distrugge la grondaia; gli strappi delle reti da pesca e i tre vecchi che seduti sul molo a rammendare le reti si raccontano per la centesima volta la storia della cannoniera dell’usurpatore, che si dice fosse un figlio adulterino della regina, abbandonato in fasce lí sul molo. Di quest’onda che rifluisce dai ricordi la citta s’imbeve come una spugna e si dilata. Una descrizione di Zaira quale è oggi dovrebbe contenere tutto il passato di Zaira. Ma la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d’una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole.”

Epperò è tutta un’illusione e, nel mio cercare una mia città e nello sceglierla, non posso che descrivere quello che ho fatto se non parlando di Aglaura, perché “morire e dare nomi – non si fa altro di sincero, probabilmente, per il tutto il tempo che si campa”

Poco saprei dirti d’Aglaura fuori delle cose che gli abitanti stessi della città ripetono da sempre: una serie di virtù proverbiali, d’altrettanto proverbiali difetti, qualche bizzarria, qualche puntiglioso ossequio alle regole. Antichi osservatori, che non c’è ragione di non supporre veritieri, attribuirono ad Aglaura il suo durevole assortimento di qualità, certo confrontandole con quelle d’altre città dei loro tempi. Né l’Aglaura che si dice né l’Aglaura che si vede sono forse molto cambiate da allora, ma ciò che era eccentrico è diventato usuale, stranezza quello che passava per norma, e le virtù e i difetti hanno perso eccellenza o disdoro in un concerto di virtù e difetti diversamente distribuiti. In questo senso nulla è vero di quanto si dice d’Aglaura, eppure se ne trae un’immagine solida e compatta di città, mentre minor consistenza raggiungono gli sparsi giudizi che se ne possono trarre a viverci. Il risultato è questo: la città che dicono ha molto di quel che ci vuole per esistere, mentre la città che esiste al suo posto, esiste meno. Se dunque volessi descriverti Aglaura tenendomi a quanto ho visto e provato di persona, dovrei dirti che è una città sbiadita, senza carattere, messa lí come vien viene. Ma non sarebbe vero neanche questo: a certe ore, in certi scorci di strade, vedi aprirtisi davanti il sospetto di qualcosa d’inconfondibile, di raro, magari di magnifico; vorresti dire cos’è, ma tutto quello che s’è detto d’Aglaura finora imprigiona le parole e t’obbliga a ridire anziché a dire. Perciò gli abitanti credono sempre d’abitare un’Aglaura che cresce solo sul nome Aglaura e non s’accorgono dell’Aglaura che cresce in terra. E anche a me che vorrei tener distinte nella memoria le due città, non resta che parlarti dell’una, perché il ricordo dell’altra, mancando di parole per fissarlo, s’è disperso.

Luca Bacchetti Maria Teresa, ti sei talmente impegnata che ne hai scelte due, bellissime peraltro, e me ne hai fatta venire in mente un’altra, di cui però ora non ricordo il nome, che è quella che appare diversamente a seconda che il viaggiatore che la avvicina arrivi dal mare o dal deserto.

Despina
(le città e il desiderio)

In due modi si raggiunge Despina: per nave o per
cammello. La citta si presenta differente a chi viene da
terra e a chi dal mare.
II cammelliere che vede spuntare all’ orizzonte dell’ altipiano
i pinnacoli dei grattacieli, le antenne radar, sbattere
le n1anichel a vento bianche e rosse, buttare fumo i
fumaioli, pensa a una nave, sa che e una citta ma la pensa
con1e un bastimento che lo porti via dal deserto, un
veliero che stia per salpare, col vento che gia gonfia le
vele non ancora slegate, o un vapore con la caldaia che
vibra nella carena di ferro, e pensa a tutti i porti, alle
merci d’ oltremare che le gru scaricano sui moli, alle
osterie dove equipaggi di diversa bandiera si rompono
bottiglie sulla testa, alle finestre illuminate a pianterreno,
ognuna con una donna che si pettina.
Nella foschia della costa il marinaio distingue la forma
d’una gobba di cammello, d’una sella ricamata di frange
luccicanti tra due gobbe chiazzate che avanzano dondolando,
sa che e una citta ma la pensa come un cammello
dal cui basto pendono otri e bisacce di frutta candita, vino
di datteri, foglie di tabacco, e gia si vede in testa ad
una lunga carovana che lo porta via dal deserto del mare,
verso oasi d ‘acqua dolce all’ ombra seghettata delle palme,
verso palazzi dalle spesse mura di calce, dai cortili di
piastrelle su cui ballano scalze le danzatrici, e muovono
le braccia un po’ nel velo e un po’ fuori dal velo.
Ogni citta riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone;
e cosi il cammelliere e il marinaio vedono Despina,
citta di confine tra due deserti.

 Maria Teresa Di Pace: Despina era la terza che avevo sottomano.

Luca Bacchetti anni a navigare le stesse onde non si cancellano solo perché il mare sembra essersi ritirato 

Maria Teresa Di Pace: Pur ritrovandomi spruzzata nelle singole città, però io sono il corsivo. Le città sono i bagliori, poesia. Il corsivo è il racconto di una storia. Il corsivo lega le singole città in un impero sull’orlo della decadenza. E il corsivo trasforma il crollo di un impero in un viaggio attraverso singole città. E ogni città è tutto l’impero e tutto il viaggio.
Cose mie. Mi ci ritrovo tanto che la presentazione di labcity si apre proprio ammiccando alle città invisibili, tipo invocazione alla musa, va’.

 

 

 

Italo Calvino, Le città invisibili

290255

 

Già il Gran Kan stava sfogliando nel suo atlante le carte delle città che minacciano negli incubi e nelle maledizioni: Enoch, Babilonia, Butua, Brave New World.

Dice: “Tutto è inutile, se l’ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente”.

E Polo: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”