The Searchers (Sentieri Selvaggi) – Alan Le May #SentieriSelvaggi #Western

Sentieri Selvaggi è perennemente sempre e per sempre situato sul mio personalissimo podio dei film più belli in assoluto, e quindi era un po’ di anni che volevo leggere il romanzo da cui era stata tratta la sceneggiatura, un classico del genere western. Avevo provato a leggerlo in inglese anni fa, ma mi ero fermata trovandolo un po’ ostico come linguaggio; ma non è mai stato tradotto in italiano, ed essendo un libro del 1954 ho pensato che non sia tanto probabile sperare in un’edizione nostrana, a questo punto, e quindi.

E’ un libro molto bello, la trama è la stessa alla base della pellicola di Ford: due uomini con diverso carattere e differenti motivazioni si mettono alla ricerca di una bambina rapita dagli indiani, perseverando nella missione al di là di ogni difficoltà e ben oltre i limiti dell’umana speranza. Il viaggio, inizialmente organizzato in fretta nell’immediatezza del rapimento, a causa delle difficoltà di trovare la ragazzina e la tribù che l’ha rapita si estende per mesi, e poi anni. La ricerca consuma nel tempo le labili tracce della scomparsa, tra piste morte, notizie incerte, incontri brutali con bianchi violenti e tribù indiane che quando non sono in guerra sono disposte al dialogo e allo scambio. Ci sono momenti più leggeri, aspri alternarsi di stagioni e speranze sempre più tenui. Con il tempo, i caratteri dei due protagonisti rivelano stimoli diversi, e approcci all’opposto nel loro sentire: dove il giovane Martin negli anni di viaggio cresce e matura, Amos è sempre più isolato e sprofonda nell’odio razziale e nella paranoia.

“Martin aveva notato che Amos sempre parlava di “raggiungerli”, mai di “trovarla”. E il freddo fuoco che covava negli occhi di Amos era una luce di odio, non di preoccupazione per la sorte di una bambina perduta. Si domandava nervosamente se non ci fosse un particolare pericolo, in questo. Era convinto che Amos, quando era di un certo umore, pur di uccidere Comanches sarebbe passato di fianco alla bambina lasciandola al suo destino, persa per sempre.”

Rispetto alla pellicola di John Ford, laddove gli orrori vengono sempre lasciati fuori campo e alla nostra immaginazione, il libro è crudo e spietato: si parla del macabro rituale dei pellerosse di smembrare le vittime e lanciarsi i loro arti nel parossisimo della celebrazione della battaglia vinta, si informa il lettore che la sorella maggiore della bambina rapita non ha speranze di essere trovata viva perchè le donne adulte catturate durante un raid vengono sempre brutalmente stuprate da tutti i guerrieri e poi uccise, i cavalli vengono ammazzati senza remore dagli stessi proprietari, sfiancati alla morte di proposito durante un inseguimento, o per farsi scudo durante un attacco indiano.

Letterariamente The Searchers si pone a metà tra un romanzo di avventura e una narrazione storica della frontiera del West, che ho trovato molto interessante: gli Indiani e la loro cultura non sono descritti nè come buoni selvaggi, nè come bestie spietate. Sono un popolo in guerra, e i coloni bianchi il loro nemico. Quando non sono in guerra, le loro usanze sono quelle di un popolo dedito alla caccia e al nomadismo, senza particolari evidenziazioni della loro “inciviltà” rispetto ai bianchi.

“The Comanches were supposed to be the most literal-minded of all the tribes. There are Indians who live in a poetic world, half of the spirit, but the Comanches were a tough-minded, practical people, who laughed at the religious ceremonies of other tribes as crazy-Indian foolishness. They had no official medicine men, no pantheon of named gods, no ordered theology. Yet they lived very close to the objects of the earth around them, and sensed in rocks, and winds, and rivers, spirits as living as their own. They saw themselves as of one piece with a world in which nothing was without a spirit.”

Ho trovato davvero commoventi e sconfortanti le pagine sulla vita dei primi pionieri del West, in questo caso insediatisi nelle praterie del Texas nella prima metà dell’800 con acquartieramenti militari vicini, e l’approvazione del Governo; nel tempo, e con lo scoppio della Guerra Civile, i militari man mano dislocati altrove, e i coloni che avevano lavorato per vent’anni quella terra, costruito case, e famiglie, lasciati soli a combattere i raid degli Indiani, e quindi a morire. Non si giustifica l’odio razziale, nè il genocidio dei Nativi, piuttosto si riflette su una situazione a dir poco difficile, e a come nessuna delle due parti in causa ebbe mai realmente la possibilità di sopravvivere pacificamente. Il romanzo celebra il coraggio e la semplice tenacia dei pionieri, il loro resistere alle difficoltà di una vita grama, costellata di duro lavoro, povertà, isolamento, che aveva spesso come ricompensa la morte per mano di un attacco indiano. Però non si dimentica l’umanità della loro controparte, di quei Pellerossa che combattevano per preservare le loro terre e le loro usanze contro l’avanzata spietata dell’Esercito degli Stati Uniti.

Lo stile è piuttosto minimalista, non tanto poetico, ma ci sono molte riflessioni epiche nel ritratto delle vaste praterie attraversate dai cercatori durante questo lungo viaggio; i personaggi sono complessi e ben scritti, in particolare Amos (sullo schermo Ethan, interpretato da John Wayne). Con il tempo, la ricerca diviene tutto, il viaggio perenne distrugge la possibilità di una vita normale per i due protagonisti, ne svanisce addirittura il desiderio: sono ormai fuori dalla società civile.

Il finale è un po’ diverso da quello del film, che è la definizone di epico, con John Wayne che esce di scena per entrare nella leggenda, ma è coerente con la storia e ben scritto. E’ un buon libro, che è stato soppresso dalla bellezza del film che ha generato: è comunque diverso, più triste, incentrato su un mondo lontano, con meno protagonismo, meno Hollywood, meno technicolor, solo terra arida, praterie, infiniti cieli e il ricordo di una bambina, e di una famiglia che non c’è più.

Se vi piacciono i western classici (sia film che libri), dategli una lettura, perchè è da qui che è nato tutto.

Lorenza Inquisition

Ma che ve lo dico a fare!!!




The revenant (a novel of revenge) – Michael Punke #TheRevenant #MichaelPunke

Questo è un libro figherrimo, uno dei più bei romanzi di avventura che abbia mai letto, uno di quelli da non cominciare assolutamente di sera perchè si fanno le ore piccole, lo cominci ed è impossibile smettere. L’ho letto in due serate e avrei potuto, e voluto, andare avanti per un’altra settimana, l’ho amato proprio, e penso lo debba leggere chiunque abbia amato in ordine sparso ma anche contemporaneamente Ken Parker, Jack London, John Ford, L’ultimo dei mohicani, Spencer Tracy in Passaggio a Nord Ovest e ovviamente Kill Bill. E’ un insieme di tutto ciò e altro ancora, ed è anche scritto bene.

revenant

La storia si intuisce parzialmente dal titolo, ed è ambientata nel Nord America agli inizi dell’800, qualche anno dopo la spedizione di Lewis & Clark, che aprì il West al commercio delle pelli e pose le basi per le future colonizzazioni dei territori degli Stati Uniti centrali. Il protagonista è Hugh Glass, un trapper che in questo periodo d’oro delle esplorazioni del continente americano si unisce a una spedizione che da St. Louis deve risalire il fiume Missouri per raggiungere lo Yellowstone. Questi sono territori ancora praticamente inesplorati, e i mercanti americani necessitano nuove strade e basi per il commercio di pellicce, che a Nord-Est è quasi tutto in mano alle potenti compagnie britanniche. I trapper sono gli unici che si avventurano così lontano, uomini che sentono il richiamo irresistibile della foresta e dell’avventura, che esplorano un mondo ignoto e pericoloso, tra animali predatori e un’infinità di diverse tribù di Pellerossa, quasi tutte ostili.

Appena il libro comincia, si è già nel mezzo dell’azione: Glass è stato attaccato di sorpresa da un enorme grizzly, gravemente ferito e menomato. Si pensa che non possa sopravvivere alla nottata, e i compagni curano le sue ferite come possono attendendo l’inevitabile fine, che però non arriva: egli supera la notte, e il giorno dopo ancora, e la notte successiva. A questo punto al suo capitano si pone una drammatica scelta, i suoi ordini sono chiari, deve portare avanti la propria missione e arrivare al forte designato che dista settimane di cammino, in mezzo a territorio per lo più sconosciuto cercando di evitare gli indiani. Trasportare un ferito così grave è impensabile, e lasciarlo indietro non è neppure da contemplarsi: in quei tempi così duri, in cui la vita e la morte di un uomo dipendevano spesso da un singolo gesto di aiuto di un estraneo, nessun ferito veniva abbandonato. Il meglio che può fare il capitano è assegnare paga extra a due volontari perchè rimangano indietro con Glass, attendano la sua inevitabile morte e poi lo seppelliscano, per riunirsi successivamente al gruppo.

Si trovano dunque due volontari, che rispettano l’accordo per qualche tempo; ma all’alba del terzo mattino scoprono tracce di indiani alla sorgente vicina, e nonostante per la prima volta da giorni Glass sia cosciente, presi dal panico scappano, compiendo l’ultimo, sommo gesto di vigliaccheria: lo derubano del proprio fucile e del pugnale, lasciandolo inerme e privandolo anche dell’ultima possibilità di morire con dignità. Questo innesca nel moribondo un senso di furia al calor bianco così potente da farlo parzialmente rinvenire e da quel momento la sua vendetta ha inizio.

La storia del suo incredibile viaggio in cerca di soddisfazione è in realtà solo una parte del romanzo, e neanche la migliore: è certo molto coinvolgente, ma il tutto serve all’autore per veicolare le incredibili storie della Frontiera in quel periodo, quando gli Stati Uniti erano ancora una nazione giovane, che scopriva immensi territori inesplorati ricchi di animali da pelliccia, di possibili forti e avanposti da costruire, di nuove incredibili strade da percorrere. E quindi abbiamo un primo accenno ai tipi di uomini che sceglievano questo ideale di vita così estrema, qualcuno per denaro, qualcuno per il senso dell’avventura, altri per sfuggire al proprio passato, o ancora per costruire il proprio futuro. Vi sono storie di caccia e di sopravvivenza estrema, di convivenza con qualche tribù di nativi e di orribili mutilazioni da parte di quelle ostili ai bianchi, e poi pirati (sì, pirati! era ancora l’epoca dei pirati, da qualche parte!), Spagnoli che hanno occupato il Texas, branchi di lupi e mandrie di bisonti, e moschetti e asce e pellicce e cappelli con code di procione, e contadini che sognano l’Ovest e trapper che sognano di poter tornare in una città, con del cibo decente e la possibilità di lavarsi ogni tanto.

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Ma soprattutto, c’è la Frontiera, i suoi boschi dai colori incredibili, i fiumi maestosi, le albe delicate e i tramonti spettacolari, e la sua infinita, epocale immensità.

“It was a moment for reflection in a space so vast it could only be divine”.

Consigliatissimo, 4 su cinque stelle. Forse un cicinino affrettata la fine ma è davvero un difettucolo da poco. Andate in pace e godetene tutti.

Lorenza Inquisition