Il ciclope – Paolo Rumiz #recensione #paolorumiz

“Il Mediterraneo è sempre stato mare di battaglie, ma la guerra ha sempre convissuto con i commerci e la cultura” mentre oggi “si parla di due rive contrapposte, perché due rive? Perché abbiamo accettato questa semplificazione bipolare? Perché la civiltà del web ignora la complessità, la espelle dal mondo. Costruisce una nuova cortina di ferro, in orizzontale, fra Gibilterra e il Libano. Nelle menti, prima che sulle mappe.”

Storia di viaggio, un viaggio particolare perchè immobile: tre settimane in un faro in mezzo al mediterraneo, su un’isola di pochi chilometri quadrati, senza alcun contatto con il resto del mondo, se non grazie ad una radio che raccoglie le voci di tutte le sponde del Mediterraneo. Rumiz passeggia tra le rocce e guarda i faristi pescare e vivere la loro vita nel turno che loro tocca. Uomini in silenzio, dediti ad un lavoro che per molti è un desiderio primordiale. Guarda le rocce e le vestigia antiche, scruta il volo della flotta di gabbiani che nidifica e circonda l’isola. Una quotidianità fatta di passeggiate, pesca, stormi di uccelli, venti, molteplici venti, fortissimi venti, dei ricordi di altri fari e di altri viaggi nei più distanti e disparati angoli del pianeta,

Inizialmente potrebbe sembrare un viaggio nella propria interiorità, in realtà Rumiz, lavorando per analogia, ci parla del nostro mare e del Mediterraneo, del suo passato, quando creava radici comuni e non barriere, e poi del presente.

Una scrittura scarna e nello stesso tempo estremamente evocativa e nostalgica, con quel suo mescolare rimandi letterari e personali, descrizioni, lessici, riflessioni, un breve e saggio idillio tra l’isola e il faro. Consigliato.

Cecilia Didone

SINOSSI

Un’isola uncinata al cielo con le sue rocce plutoniche, attracco difficile, fuori dai tracciati turistici, dove buca il cielo un faro tuttora decisivo per le rotte che legano Oriente e Occidente. Paolo Rumiz, viandante senza pace, va a dividere lo spazio con l’uomo del faro, con i suoi animali domestici: si attiene alle consuetudini di tanta operosa solitudine, spia l’orizzonte, si arrende all’instabilità degli elementi, legge la volta celeste. Gli succede di ascoltare notizie dal mondo, e sono notizie che spogliano l’eremo dei suoi privilegi e fanno del mare- anche di quel mare apparentemente felice – una frontiera, una trincea. Il faro sembra fondersi con il passato mitologico, austero Ciclope si leva col suo unico occhio, veglia nella notte, agita l’intimità della memoria (come non leggere la presenza familiare della Lanterna di Trieste), richiama – sommando in sé il “gesto” comune delle lighthouse che in tutto il mondo hanno continuato a segnare la via – le dinastie dei guardiani e delle loro mogli (il governo dei mari è legato all’anima corsara delle donne), ma soprattutto apre le porte della percezione. Nell’isola del faro si impara a decrittare l’arrivo di una tempesta, ad ascoltare il vento, a convivere con gli uccelli, a discorrere di abissi, a riconoscere le mappe smemoranti del nuovo turismo da crociera e i segni che allarmano dei nuovi migranti, a trovare la fraternità silenziosa di un pasto frugale.

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