L’isola dell’infanzia – Karl Ove Knausgård

“La memoria non è affatto una misura affidabile e responsabile di una vita. E non lo è per il semplice motivo che la memoria non mette la verità al primo posto. La memoria è pragmatica, è subdola e astuta, ma non in modo ostile né maligno.”

Traduttore: M. Podestà Heir

Terzo libro dell’autobiografia in sei volumi La mia battaglia di Karl Ove Knausgard, letto perchè rapita dal titolo e perchè amo i racconti di infanzia. Sì, qui si racconta un’infanzia dai primi anni alla preadolescenza con una miriade di ricordi precisi, come solo Knausgard sa fare. Un’infanzia norvegese, paese che amo molto, che ci riempe gli occhi di boschi, di baie, di mare, di luce e di buio, ma anche il naso di odori e profumi. Non so voi, ma anch’io dell’infanzia ho soprattutto ricordi di odori e profumi, che riafforano così, imprevisti, su uno stimolo olfattivo, da rimanere senza parole.
Karl Ove è il protagonista e voce narrante, bimbo sveglio, curiosissimo e avventuroso ma anche tremendamente fragile e pauroso. La paura è infatti il motore della vicenda, paura di un padre incombente, imprevedibile, iracondo, violento, onnipresente e onnisciente. Presente per controllare e punire, mai per rassicurare e sostenere. La paura del padre lo soffoca e lo attanaglia, facendo emergere il suo lato fragile e frignone, sì perchè lui è molto frignone, lo sa e se ne duole… ma è in balìa totale di questa figura, indecifrabile ai suoi e ai nostri occhi. Non bastano una madre attenta, tranquillizzante e dolce (ma non troppo) e un fratello maggiore solidale e consigliere, a esorcizzare questa paura, evolverà con lui e soprattutto con un maggior distacco spaziale dal padre.

“…in primavera ed in estate la maggior parte della vita veniva trascorsa all’aria aperta,esisteva un livello completamente diverso di contatto tra la vita dei bambini e quella degli adulti,ma quando sopraggiungeva l’autunno con la sua oscurità era come se il legami venissero recisi e noi scivolavamo in un mondo tutto nostro non appena la porta di casa veniva richiusa…”

Ma la sua è anche un’infanzia libera e a contatto con una natura selvaggia, uscire a giocare vuol dire infilarsi in boschi senza fine, sciare su sentieri sul mare, sentendo il rumore e il profumo delle onde, giocare al buio d’inverno e in una luce eterna d’estate. Di Karl Ove seguiremo tutto, i suoi giochi, le sue innumerevoli letture, la musica che comincerà ad ascoltare e a suonare, gli amori, le prime esperienze sentimentali e sessuali, gli sport, la scuola, le amicizie… in un flusso di immagini, emozioni e sentimenti senza pari, di grande spessore narrativo. Insomma ne è valsa proprio la pena, consigliato a chi ama le storie d’infanzia e il grande Nord.

Chi io sia per loro, non lo so, presumibilmente il vago ricordo di uno che un tempo conoscevano da bambino perché tante sono le cose contrastanti che da allora hanno fatto nella vita, tante quelle che sono successe e con una tale forza che i piccoli avvenimenti intercorsi durante l’infanzia non hanno più peso della polvere sollevata da una macchina di passaggio o di quella specie di piumino che si diffonde nell’aria quando una piccola bocca soffia su un dente di leone sfiorito.

Pia Drovandi

Una famiglia di quattro – madre, padre e i due figli – si trasferisce sull’isola di Tromøya, al largo della costa meridionale della Norvegia, in una casa nuova. Sono i primi anni settanta, i bambini sono piccoli, i genitori giovani e il futuro aperto. Dagli immensi boschi carichi di promesse e misteri, meta prediletta delle scorribande del piccolo Karl Ove, descritto con ossessiva meticolosità, si apre l’appassionato racconto delle sue esperienze e scoperte. La felicità della scuola e lo sforzo per trovarvi un proprio posto; le gratificazioni e le frizioni dell’amicizia; l’eccitazione della vita all’aria aperta con le sue avventure; l’incontro con l’amore, le sue gioie, le sue amarezze; i vestiti, la lettura, la musica, lo sport; e, soprattutto, la famiglia, con le sue due figure antagoniste, l’una più sfumata, l’altra onnipresente: confortevole e serena la madre, autoritario e terrificante il padre, sempre vigile, sempre pronto a esaminare e sanzionare con violenza qualsiasi scivolata.

La mala morte – Fernando Royuela

Traduttore: F. Frasca

Bisognerà abbandonare quest’illusione di coscienza, che ci fa credere di ricordare il nostro passato e di vivere partendo da questo, penetriamo piuttosto quei territori del nulla che forse sono i più difficili da lasciare. Tutti quelli che conosceremo avranno un ruolo magari involontario nella cerimonia della nostra vita, ma sarà anche grazie a loro che la nostra vita troverà il senso per cui è stata creata.

Il romanzo ha come protagonista il nano Gregorio, nato da una prostituta in un paesino della Spagna durante gli anni ‘50. Il ragazzino viene ceduto dalla madre, che non lo può mantenere, ad un circo e da lì iniziano tutte le sue avventure fino agli anni ’90.
La voce narrante è quello dello stesso Gregorio che, partendo dal momento della sua vita di culminante successo, si muove in retrospettiva a rievocare tutte le sue vicissitudini in modo dettagliato e con un profondo sarcasmo. Egli stesso e tutti i personaggi di questa storia vengono infatti descritti senza sconti e in modo impietoso: uno strano destino accompagna Gregorio…tutte le persone che in qualche modo gli recano del male, muoiono in modo crudele o fanno una brutta fine, e a volte è lui stesso che aiuta in questo!
Gregorio viene presentato come vuole la tradizione: brutto, maligno e malvagio; è avido e non si pone nessun problema a tradire le persone. Le prime 3 parti (Infanzia, Circo e bassifondi Madrid) rasentano il capolavoro: spietato, aspro, di una bellezza cattiva, rabbioso, ironico, passionale… non manca niente.
Notevole è la prosa, molto barocca e di pieno sapore ispanico.
La lettura di questo libro mi ha divertito, anche se in alcuni punti, soprattutto dalla metà in poi l’ho trovata molto, troppo ripetitiva e pesante, l’auore si è proprio un po’ perso e il finale mi ha un po’ deluso.

“I rampolli del Regime insepolto, cercando diperatamente di vendicare la passività dei loro capi, mostravano come cuccioli la crudeltà dei loro canini là dove potevano inculcare a bastonate la sopravvivenza di ideali intrisi di metafore antiquate. La maggior parte di loro erano ragazzi bene che, col tempo, avrebbero sposato abbienti smorfiosette per poi, dimentichi ormai dell’actoplasma della gloria, seguire scrupolosamente i loro affari fino a mettere su un bella pancia, perdere i capelli e guidare con sommo senso civico 4×4 gremiti di progenie.”

Silvia Loi