Poi accadde. Una sera, mentre la pioggia batteva sul tetto spiovente della cucina, un grande spirito scivolò per sempre nella mia vita. Reggevo il suo libro tra le mani e tremavo mentre mi parlava dell’uomo e del mondo, d’amore e di saggezza, di delitto e di castigo, e capii che non sarei mai piú stato lo stesso. Il suo nome era Fëdor Michailovič Dostoevskij. Ne sapeva piú lui di padri e figli di qualsiasi uomo al mondo, e cosí di fratelli e sorelle, di preti e mascalzoni, di colpa e di innocenza. Dostoevskij mi cambiò. L’idiota, I demoni, I fratelli Karamazov, Il giocatore. Mi rivoltò come un guanto. Capii che potevo respirare, potevo vedere orizzonti invisibili. L’odio per mio padre si sciolse. Amavo mio padre, povero disgraziato sofferente e perseguitato. Amavo anche mia madre, e tutta la mia famiglia. Era tempo di diventare uomo, di lasciare San Elmo e andarmene nel mondo. Volevo pensare e sentirmi come Dostoevskij. Volevo scrivere.
Letti Aspetta primavera Bandini e Chiedi alla polvere quando ero ragazzo, secolo scorso, non mi era rimasta la sensazione importante che ti aspetti da uno scrittore di cotanta fama. Da allora non ci sono tornato sopra. Decido di riprovare con quest’opera matura, del resto pure io con un bel po’ di annetti sulle spalle, e quindi, cosa dire? La confraternita dell’uva è uno strabordare di umanità imperfetta, ignorante e fragile, prepotente e disperata, ai limiti di un macchiettismo (lo stereotipo dell’italiano emigrato in USA) che, se ne rappresenta il principale difetto, è anche il rischio che Fante sa prendersi per caricare di energia la narrazione, finendo col regalarci personaggi indimenticabili.
Pagine in cui nessuno sa essere all’altezza di quello che dovrebbe, ed è così che la letteratura coincide con la vita.
Stefano Solventi