Morte di un uomo felice – Giorgio Fontana #recensione #giorgiofontana

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Siamo nell’estate afosa del 1981 a Milano, nell’epoca del terrorismo rosso e nero che colpisce a ripetizione; cadono uomini senza colpe dirette, ma eletti a simbolo dello Stato oppressore da chi pensa che la morte sia l’unica risposta allo stragismo che rimane senza colpevoli, da Piazza Fontana a Piazza della Loggia all’Italicus e via via sommando sempre nuove vittime. Giacomo Colnaghi, il protagonista di questa storia dall’esito ineluttabile già dal titolo, è un sostituto procuratore che crede nella legge e nella giustizia degli uomini onesti ma non cessa di interrogarsi sulle motivazioni profonde e sulle scelte assurde di giovani che, come lui nati e cresciuti nella cultura cattolica e in un credo politico egualitario di sinistra, hanno trovato strade opposte alla sua nelle bande armate. E’ un uomo apparentemente sereno e felice, Giacomo, dalla vita monotona e perfino banale: vive da solo a Milano tornando in famiglia solo per il week-end e sembra privilegiare il lavoro alla famiglia, e forse così felice non è se lui e la moglie non fanno all’amore da sette mesi. E’ poi tormentato dalla consapevolezza che la sua giustizia non sembra dare risposte adeguate ai parenti delle vittime.
Il racconto privilegia le atmosfere cittadine di quegli anni, pesanti di una cupezza presaga del peggio, e all’azione del magistrato antepone gli incontri casuali o con vecchi amici o con i terroristi catturati. Il libraio Mario, il parroco don Luciano, il collega magistrato Doni, sono persone con le quali il protagonista si confronta e scontra sul senso del suo impegno, sulla sua convinzione fervidamente cattolica e soprattutto sul sacrificio a cui obbliga la propria famiglia. In questo andamento pacato e dolente sta il pregio e forse anche un limite del libro che ricorre a qualche stereotipo o a immagini a volte leziose che rubano spazio a un approfondimento più incisivo del tema trattato, forse impossibile all’autore nonostante l’ampia documentazione a cui si è alimentato, non essendo testimone diretto di quell’epoca. Ma Fontana sembra volere mettere una sua radice anche qui, in questa epoca, investigandola, come fa fare al suo protagonista, rimasto orfano appena nato perché il padre Ernesto, la cui storia viene raccontata in parallelo allo svolgimento della vicenda principale, è morto giustiziato dai tedeschi durante la lotta partigiana ma è diventato così la stella polare di un impegno inderogabile. Un magistrato cattolico al lavoro durante gli anni di piombo, un operaio comunista in fabbrica durante la seconda guerra mondiale, un padre e un figlio diversi ma uniti dallo stesso destino, due vite spese con impegno alla ricerca della giustizia, libertà e verità.
Non mancano i passaggi incisivi e interessanti (vedasi l’incontro a una conferenza in cui è praticamente l’unico partecipante con la relatrice con la quale si trova a dibattere il tema del diverso significato della giustizia divina e della giustizia degli uomini e nel quale la sintesi suggerita è un bellissimo verso di Dylan Thomas: “And all your deeds and words, /each truth, each lie, / Die in injudging love” (E tutte le tue azioni e le tue parole, ogni verità, ogni bugia, muoiono nell’amore che non giudica).
Questo libro ha vinto, a sorpresa, il Campiello 2014: non è un libro perfetto, ma molto interessante e pregevole perché la memoria degli anni bui del terrorismo politico dovrebbe bricordarci che abbiamo passato momenti molto complessi e sarebbe molto importante capire perché ci si è arrivati e perché sarebbe tanto meglio non ricapitarci dentro.

Renato Graziano

Giallo francese: Boileau-Narcejac

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La premiata ditta Boileau-Narcejac, probabilmente l’unica a poter rivaleggiare in notorietà con l’altra coppia americana degli Ellery Queen, possedeva una consapevolezza teorica che pochi altri hanno avuto. S’erano accuratamente divise le parti nella scrittura: «uno doveva occuparsi quasi unicamente della meccanica – scrivono loro stessi -, l’altro doveva occuparsi dei personaggi indipendentemente dal primo». Lo scopo doveva infatti essere la creazione di un genere giallo capace di situarsi nello spazio intermedio tra la scuola dei duri all’americana, saldamente realistica e violenta, la detection a enigma inglese, e il classico noir francese ambientato dentro una malavita disperata e maledetta. Il frutto furono fortunati romanzi a partire dai primi anni Cinquanta, in cui era sparita la figura classica dell’investigatore, il punto di vista narrante era incentrato sulla vittima stessa, che cadeva in una macchinazione come dentro la tela di un ragno: «la vittima sia condotta non soltanto a indagare sul proprio caso, ma ancor più a delirare, quanto più essa si sforza di ragionare rettamente». Una suspence totale in cui il giallo vira su un delirio fantastico, e inscena una specie di dannazione del protagonista-investigatore-vittima per un qualche peccato originale. Ragion per cui, un regista come Hitchcock, ossessionato dai meccanismi del peccato e del senso di colpa, adottò il loro capolavoro nel celeberrimo film con James Stewart e Kim Novak. Ma il film si distacca molto dal libro, che non concede nulla alle inevitabili consolazioni hollywoodiane, e racconta dell’autodistruzione di un avvocato che s’innamora della donna che deve sorvegliare, la quale prima muore suicida e poi – sembra? – ricompare in un’altra città. L’avvocato non vedrà abbastanza – o vedrà troppo – per capire veramente in che vertigine è caduto.

Pierre Boileau (1906-1989) e Thomas Narcejac (1908-1998), prima di decidere di lavorare assieme, avevano scritto ciascuno numerosi romanzi e racconti, più volte premiati, e, entrambi, si erano impegnati nella riflessione critica sul genere poliziesco. Dal loro incontro, tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta, sono venuti circa venti romanzi, quali I diabolici (1952), I demoniaci (1955), Il sepolcro d’acqua (1960), sceneggiati poi, spesso più volte, per il cinema, come La donna che visse due volte del 1954.
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