Dino Zoff – Dura solo un attimo la gloria @librimondadori #DinoZoff

zoff

Un genere che vedo spesso in libreria: le (auto)biografie degli sportivi. Dopo Open di Agassi, ne ho viste in giro altre, vado a memoria: quella su Michael Jordan, Mc Enroe, quella di Tyson…

In questi giorni ho letto quella di Dino Zoff. Bella, breve, condita di quel garbo ruvido fatto di poche parole che ben conosce chi Zoff lo ha “frequentato” anche solo tramite la Domenica Sportiva.

I retroscenisti rimarranno a bocca asciutta: nessuna rivelazione, nessuno scoop. Certo, un paio di sassolini se li toglie dai … guanti. Non di piccolo calibro, i sassolini.

E’ il racconto della vita di un atleta, di una dedizione sportiva di un professionista distante anni luce da quelli contemporanei, uno sportivo di enorme umanità che oggi, sereno, smaltisce qualche amarezza.
Mi ha colpito molto lo spazio dedicato al Napoli (ovviamente) e alla città che sembra lo affascinò e dove, a suo dire, sarebbe rimasto.
Anche se non si poteva dire no alla Juve.

francesco m. landolfi

DESCRIZIONE

«Ho giocato a calcio per quarant’anni. Mi hanno chiamato mito, monumento, leggenda. Oggi, dopo tutto questo, posso dire che aveva ragione nonna Adelaide: “È passato Napoleone che aveva gli speroni d’oro agli stivali, figurati se non passa anche il resto”. Tutto cominciò proprio con lei, in un pomeriggio qualunque di sessant’anni fa, a Mariano. Quel pomeriggio si mise a giocare con me: tirava le prugne in aria e io dovevo prenderle al volo. Era un gioco per modo di dire: nelle case dei contadini il cibo non si spreca, mai. Quindi, se volevo continuare a giocare con lei, dovevo prenderle tutte. Iniziò così. E arrivò tutto il resto. Ma, soprattutto, sono arrivati gli uomini veri, quelli dritti e silenziosi come mio padre. Gaetano ed Enzo, Scirea e Bearzot, amici, fratelli, esempi. È a quegli uomini e all’intelligenza dei loro silenzi che penso ancora oggi, settant’anni e cento mestieri dopo. Succede ogni giorno, all’improvviso, quando mi capita di sentire il profumo dell’erba. Allora non riesco a domare un brivido, una nostalgia bellissima, istintiva. E mi dico che sì, aveva ragione mia nonna, la gloria dura un attimo solo. Ma certi attimi, se li sai coltivare, possono durare una vita intera.»

Il genio dell’abbandono di Wanda Marasco @NeriPozza #WandaMarasco

Gli occhi di Giuseppina a ogni allattata si squagliavano come quelli di una Psiche.

marasco

Appena terminato il mio numero 22.
Il genio dell’abbandono di Wanda Marasco.
Vita di Vincenzo Gemito, lo “scultore pazzo”, vissuto a Napoli tra la fine la seconda metà dell’ottocento e i primi decenni del novecento.
Romanzo sospeso tra invenzione letteraria e ricostruzione storica, scritto con qualche espressione in napoletano, grande teatralità nel linguaggio, nelle descrizioni, nelle vicende del grande artista. Riuscitissimi (e toccanti) i ritratti della madre Giuseppina, dell’amante Matilde (con cui si apre il romanzo) e della figlia Peppinella (con cui si chiude).
Bello, molto bello. Neri Pozza dà alle stampe un libro potente, che sarebbe rimasto manoscritto nel cassetto di Wanda Marasco, se non fosse stato per il premio letterario indetto dalla casa editrice stessa per le prima volta l’anno scorso. La qualità letteraria delle opere in concorso ha convinto l’editore ha pubblicare tutte e cinque le opere finaliste, e il Genio dell’abbandono non è neppure il primo classificato.

Francesco M Landolfi

Descrizione:

Il genio dell’abbandono racconta la vita del più grande scultore italiano fra Otto e Novecento: Vincenzo Gemito. E lo fa mantenendosi in prodigioso equilibrio tra fedeltà al dato storico e radicale reinvenzione dello stesso. È il romanzo di un’avventura eversiva e donchisciottesca, libro di vertiginosa solitudine e di teatrale coralità sullo sfondo di una Napoli vissuta come «un paese imprecisato che stava diventando la sua frontiera di malato», a contatto coi protagonisti della cultura del tempo, da Salvatore Di Giacomo a Raffaele Viviani e agli altri.
Wanda Marasco prende le mosse dalla fuga dell’artista dalla clinica psichiatrica in cui è ricoverato, e da lì ricostruisce la storia agitata di un «enne-enne», un figlio di nessuno abbandonato sulla ruota dell’Annunziata, il grande brefotrofio del meridione. Il marchio del reietto – beffardamente impresso nel suo stesso nome che è il risultato di un errore di trascrizione – lo accompagnerà per sempre, quasi come un segno di divinazione.  Il suo apprendistato lo farà nei vicoli, al fianco di un altro futuro grande artista, il pittore Antonio Mancini, suo inseparabile amico che diventerà anche coscienza di Gemito, suo complice totale e infine suo nemico o, meglio: quell’intimo nemico di se stessi che si preferisce trasferire nell’altro. Vedremo così «Vicienzo» entrare nelle botteghe in cerca di maestri, avido di imparare. Lo seguiremo a Parigi, tra stenti da bohème e sogni di celebrità, e lo ritroveremo a Napoli, artista ambito da mercanti e da re, e pur sempre incalzato da quel «genio dell’abbandono», che, potente metafora dell’orfanità dell’arte, lo spinge a grandi imprese e lo precipita nel baratro dei fallimenti. Vivremo il suo folle amore per la modella Mathilde Duffaud, che ne segna la vita come un sistema dell’erotismo e del dolore, un impasto di eccessi e delusioni che sfociano in una follia tutta «napoletana»: intelligenza alla berlina, incandescenza e passioni spesso arrese a un destino malato di cui il «vuoto» di Napoli voracemente si nutre.
Scritto in una lingua vigorosa e raffinatissima che con movimento naturale vira verso il registro dialettale, Il genio dell’abbandono è sostenuto, come ha scritto Cesare Segre, da uno slancio drammatico che conferisce ai personaggi «uno stacco e un dinamismo straordinari». Portatore di un dolore immedicabile e insieme di una furia sconfinata, «Vicienzo» s’imporrà al lettore con la forza dei personaggi indimenticabili, «pazzo in latitudine e longitudine» e «col carattere di una putenta frèva»: la febbre del genio che combatte la sua battaglia solitaria con la storia e la società per affermare identità e passione.