Il sale della terra – Jeanine Cummins #JeanineCummins #Feltrinelli

Il sale della Terra è un romanzo al centro di un caso letterario oltreoceano, una diatriba infuocata che coinvolge decine di scrittori messicani e statunitensi, e nel frattempo, tomo tomo cacchio cacchio, scala le classifiche mondiali, perchè, semplicemente, si legge veramente bene. Premetto che l’ho preso perchè me lo suggeriva Amazon, mi intrigava la trama, aveva una classifica di giudizi dei lettori accettabile, e l’ho cominciato. Non avevo idea di chi fosse la scrittrice, nè della famosa polemica in corso, e forse è stato meglio così: l’ho letto in un giorno e mezzo, e mi è piaciuto parecchio. Una volta finitolo ho aperto l’internet per leggere un po’ di recensioni, e ho appreso delle varie critiche e del vespaio di proteste suscitati dalla sua uscita, che sostanzialmente riguarda il fatto che l’autrice, bianca e americana, scrive un romanzo appropriandosi di una cultura non sua (quella messicana), ricevendo suon di dollaroni dalla casa editrice statunitense (vendendo addirittura i diritti cinematografici prima ancora della pubblicazione) perchè il romanzo è scritto a tavolino per piacere a un pubblico occidentale. Tralascio brevemente queste premesse per parlare del libro, prima che del caso letterario.

La storia è molto avvincente, e parte in modo tragico e spettacolare: una giovane libraia messicana e il suo bambino si salvano miracolosamente dal massacro della loro intera famiglia, riunita per la quincenera di una delle cuginette, da parte di un commando di narcos. Subito, con i corpi dei parenti ancora caldi, comincia la fuga: se si sono salvati, è un caso, e la fortuna, in questi momenti, si esaurisce rapidamente. Sanno di avere alle spalle un cartello il cui capo ha decretato la loro sentenza di morte, e l’unica via di fuga è verso il Nord, l’America.

Prende il via da qui un viaggio frenetico, che porta il lettore nel tragico mondo dell’immigrazione clandestina messicana, lungo la rotta dei disperati che dal Messico e dal Centro America si spingono a nord, sempre più su. Pagina dopo pagina, seguiamo i due protagonisti in una fuga dove continuamente si rischia la vita, lungo i binari dei treni merci che ogni anno portano migliaia di migranti fino al confine con gli Stati Uniti. Entriamo con loro nei rifugi tenuti in piedi dalla carità eroica dei volontari, ci facciamo strada tra poliziotti corrotti, sorveglianti conniventi, narcos psicotici, compagni di strada a volte violenti, allucinati, a volte traditori, spesso comunque molto umani e solidali.

Il sale della terra è un romanzo di finzione, costruito come un thriller, scritto sorprendentemente bene. È la storia di un inseguimento, ha un ritmo serrato che ti prende fin dal primo momento, ha due protagonisti verso i quali siamo molto empatici, una madre e un bambino.

Allora, perchè la diatriba? perchè Jeanine Cummins secondo diversi intellettuali di origine messicana ha prodotto un libro inaccurato e stereotipizzante nel descrivere il Messico e i messicani; la accusano di aver scritto una storia melodrammatica, pensando ai gusti americani, a cominciare dalla protagonista e suo figlio, che sono messicani sulla carta ma in effetti sembrano a tutti gli effetti due occidentali, oserei dire addirittura meglio: due statunitensi. Tutti e due parlano inglese, sono sani e ben nutriti, lei è una giovane signora laureata che gestiva una libreria ad Acapulco: hanno soldi perchè prima di fuggire riescono a prelevare tutti i soldi dal conto bancario, quindi rispetto alle migliaia di altri migranti che incrociano non sono mai veramente disperati.

Si critica poi il diritto (oltre alla capacità) di una scrittrice statunitense e bianca, quale è Cummins, di raccontare una storia di migranti messicani, ma soprattutto si accusa l’industria editoriale americana che ha promosso un libro come questo molto di più rispetto a romanzi sullo stesso tema scritti da autori messicani o centroamericani, o statunitensi ma messicani o centroamericani di origine.

Il vero problema non è tanto Il sale della terra, ma il fatto che questo romanzo abbia ottenuto molta più attenzione e riconoscimenti (l’anticipo da più di un milione di dollari, la vendita dei diritti cinematografici e l’attenzione di Oprah Winfrey) di molti altri libri sullo stesso tema che secondo i critici sarebbero scritti meglio e con maggiore preparazione. A essere criticato quindi è soprattutto il sistema editoriale statunitense, che favorirebbe gli autori bianchi, compresi tutti quegli scrittori che hanno detto cose entusiastiche del romanzo senza conoscere bene la letteratura messicana. Succede perché la maggior parte delle persone che lavorano nell’editoria sono bianche.

https://www.ilpost.it/2020/01/29/polemica-romanzo-jeanine-cummins-oprah-winfrey/

Io non ho onestamente le basi per prendere una posizione decisa, anche se oggettivamente non è un capolavoro tale di libro da far dimenticare tutto il resto. Mi sento di dire che mi è piaciuto molto, perchè sì, è un romanzo se vogliamo melodrammatico e certo ben costruito per piacere, che si legge come un libro di avventura, decisamente un po’ furbo in certe scelte autoriali. Però secondo me è anche un bel romanzo, con ingredienti di riflessione interessanti, e soprattutto ha uno stile mai sciatto nè banale. E’ un best seller, sì, ed è ovvio che Don Winslow che parla di cartelli messicani non è lo stesso fottuto campo da gioco, non è lo stesso campionato, e non è nemmeno lo stesso sport. E’ ovvio e lapalissiano. Però secondo me la Cummins riesce a trasmettere con onestà la costante sensazione di pericolo che vivono i migranti, l’esposizione ripetuta a maltrattamenti e abusi (soprattutto verso delle donne giovani che viaggiano indifese alla mercè di bastardi zozzoni), l’opacità riguardo al percorso burocratico nel futuro che li aspetta, nonché la mancanza di qualsiasi supporto da parte delle autorità (messicane e statunitensi).

Detto questo, sto cercando in rete un po’ di titoli meno controversi sull’argomento, per fare ammenda. E’ anche vero che non sempre si legge per spolverarsi la coscienza o salvare il mondo o capire dove stiamo andando, a volte si vuole solamente che un libro stia con noi per qualche ora, magari facendoci riflettere un poco e niente di più, o indicandoci la strada, poi da lì magari approfondiamo, magari no.

Quindi, date tutte queste premesse e riflessioni, io lo consiglio.

“Questo cammino è solamente per quanti di voi non hanno scelta né altre possibilità ma solo violenza e miseria alle spalle. … Alcuni di voi cadranno dai treni. Molti rimarranno mutilati o feriti. Molti moriranno. Molti di voi verranno rapiti, torturati, venduti, sequestrati. Alcuni avranno la fortuna di sopravvivere a tutto questo e arriveranno al confine degli Estados Unidos, solo per avere il privilegio di morire da soli nel deserto”.

“Solo uno su tre di voi arriverà vivo a destinazione”.

Lorenza Inquisition

Le mappe dei miei sogni – Reif Larsen #Larsen #viaggio #sogni #mappe

*Un western

T.S. Spivet è un genio dodicenne che disegna mappe. Vive in un ranch del Montana con il padre, un cowboy silenzioso, e con la madre, una studiosa di coleotteri che da vent’anni è alla ricerca di una mitica specie di scarafaggio. Il fratello è morto e la sorella è apparentemente normale. T.S. cerca di dare un ordine alle cose tracciando su un taccuino mappe bellissime e meticolose. Mappe di tutto: del comportamento della famiglia, di animali, di piante, di posti, di cose. La sua avventura comincia quando si mette in viaggio per andare a ricevere un importantissimo premio conferitogli dallo Smithsonian Institution. Scappa nel cuore della notte e su un treno merci attraversa l’America per oltre 2000 miglia incontro alla fama. Ma è proprio questo ciò che vuole? Le mappe e le liste sono davvero capaci di spiegare il mondo, il suo confuso affastellarsi di dolori, silenzi, misteri? E l’enigma che sono gli adulti? Le illustrazioni di Ben Gibson e Reif Larsen accompagnano e arricchiscono tutta la storia.

Reif Larsen, Le mappe dei miei sogni

traduzione di Martino Gozzi

Strade blu, Milano, Mondadori, 2010, pp. 368.

Ho fatto tante false partenze prima di approdare a Pivet. Ho cominciato due volte Cavalli Selvaggi di McCarthy, poi ho iniziato Lonesome Dove pensando di riuscire a finirlo in tempo per dicembre (che illuso), ho provato a trovare un western che mi interessasse e mi aiutasse a finire la disfida ma è stata una ricerca infruttuosa, e alla fine ho deciso di rileggere questo Le mappe dei miei sogni (in originale The Selected Works of T.S. Spivet), ambientato nel selvaggio West, tra le valli del Montana, invece che un classico western tra coloni, indiani, carovane e cercatori d’oro.
Il protagonista, Tecumseh Sparrow “T.S.” Spivet, è un bambino prodigio, principalmente interessato alla cartografia, ma anche dilettante scienziato, come la madre, entomologa e naturalista, e assai diverso dal padre, il paradigma del cowboy americano. Larsen insiste molto su questa diversità e complementarità dei genitori che si riflette quasi specularmente nell’identità dei fratelli gemelli, T.S. e Layton. Forse è proprio questa diversità a influire sui rapporti che T.S. ha col padre, specialmente dopo l’evento luttuoso di cui non vi anticipo niente e che percorre in maniera sotterranea tutta la narrazione. L’intreccio si muove dall’annuncio della vittoria del progetto scientifico di T.S. dell’ambito premio dello Smithsonian Institute per la realizzazione di una “macchina del moto perpetuo”: T.S. si finge maggiorenne per confermare la sua presenza a Washington a presenziare alla consegna dei premi. Ignorato dai genitori in lutto, T.S. scappa di casa e, saltando su un treno merci, come nella migliore tradizione della narrativa americana sugli Habbo, percorre più di 2000 km da west a est. Le conseguenze della sua fuga, gli espedienti che dovrà inventare durante il viaggio e una volta arrivato a destinazione per poter convincere tutti di essere il vero ideatore della macchina del moto perpetuo, il tormentato rapporto con il padre e infine il confronto con il lutto al finale, dimostrano che Larsen ha saputo manovrare con grande destrezza e con originalità tutti i birilli che da bravo giocoliere era riuscito a tenere in aria per tutto il tempo della narrazione. A volte si perde in qualche excursus o forse dà troppa voce a qualche personaggio minore, altre volte sembra promettere una svolta significativa alla fine di un capitolo per poi rinviare spiegazioni e fatti più avanti, quando ormai il lettore ha perso l’attenzione per il particolare in quesitone. Malgrado alcune pecche resta un libro affascinante, in grado di rapire l’attenzione e la fantasia del lettore lungo il grande viaggio di formazione che T.S. compie attorno al suo mondo per tornare fino al punto di partenza dove vivere una vita diversa da quella che si aspettava nella sua giovane mente, ma molto più fedele a quei desideri così sottaciuti e trascurati del suo cuore. A volte basta solo questo per dimostrare di avere talento come romanziere: non voli pindarici, o avventure esotiche o trame inaspettate, quanto il riconoscimento di desideri che non si sapeva neanche di avere finché l’autore non ha inventato una grammatica per esprimerli. Ecco, Larsen mi è piaciuto perchè sembra riuscire nell’intento di far capire al lettore tra le righe molte più cose di quello che riesce a dire. Le illustrazioni delle “mappe” dei sogni e della vita di T.S. meritano tutto il costo del libro.

Stefano Lilliu

Critica (via wikipedia)

Alcuni critici hanno lodato il lavoro per la sua originalità; tra questi, una menzione su Vanity Fair che dichiara il lavoro “come niente che abbiate mai trovato”. Il libro ha ricevuto una recensione particolarmente benevola dal prolifico scrittore Stephen King, che ha dichiarato: “Qui c’è un libro che fa l’impossibile: combina Mark Twain, Thomas Pynchon e Little Miss Sunshine. I buoni romanzi divertono; quelli grandi arrivano come un dono per i lettori che sono abbastanza fortunati da scovarli. Questo libro è un tesoro.”

Altri, tuttavia, hanno notato un significativo rallentamento della trama del romanzo, puntando il dito su errori commessi da uno scrittore alle prime armi verso la conclusione dell’opera. Uno di costoro ha scritto: “Non riesco a ricordare l’ultima volta che la mia iniziale affezione per un romanzo sia stata così tradita dalla sua conclusione. È sconcertante che qualcuno non abbia aiutato questo giovane autore a rifinire Le mappe dei miei sogni per trasformarlo nel classico dall’effetto dirompente che avrebbe potuto essere.” Mentre la maggior parte dei recensori ha apprezzato lo stile illustrativo dell’impaginazione del libro, alcuni l’hanno considerato eccessivo; una di questi, del New York Times, ha descritto l’atto di leggere sia il corpo del testo che le note a margine come “spossante”.