Un attimo prima – Fabio Deotto @nellogiovane69 #FabioDeotto

«Il denaro è come un incubo, Ibsen, o se preferisci uno spot pubblicitario: è sufficiente che la gente smetta di crederci perché perda ogni forza».

Il sostrato di questo romanzo, il secondo di Deotto, è una realtà aumentata, nel senso che poggia su basi realistiche, concrete, attuali, indagate nei loro sviluppi probabili, possibili o apocalittici. Cosa che Fabio Deotto fa abitualmente nella sua attività di giornalista (per diverse riviste di carta e sul web). Come scrittore, sembra mosso da un ancora più pronunciato “realismo apocalittico”, che sfocia in una distopia assieme mirabolante, cruda e terribile. In una Milano futura – l’anno non viene specificato -, dopo un Crollo di cui possiamo solo indovinare la natura (comunque energetico ed economico) e che assolve al suo ruolo di discontinuità in ottica post-apocalittica, il denaro è abolito a favore di “punti sanitari”, il lavoro non è più necessario (ognuno riceve dei rifornimenti periodici, come in un enorme piano di pensioni da iper-socialismo post-liberista), i droni-poliziotto assicurano l’ordine e ognuno è connesso attraverso lenti impiantate che “aumentano” la realtà.
In questo quadro vagamente utopico si delinea presto una sottotrama di alienazione, di controllo e di esclusione (i pre-cittadini costretti a lavorare per acquisire i punti necessari alla cittadinanza, i paria lasciati marcire sotto la pioggia acida, gli stessi cittadini obbligati a sottoporsi a un costante training salutista, le fibre video di cui sono rivestiti i palazzi capaci di monitorare tutto ciò che accade…), in cui si snoda la doppia trama di Edoardo e di suo nipote Sealth.
La terapia cui si sottopone Edo è un flashback orientato alla rivisitazione di un trauma che lo ha reso a lungo andare apatico e accumulatore seriale, teoria che presto si rivela più invadente del previsto (siamo dalle parti di Total Recall…): oltre a rappresentare un efficace espediente narrativo, è anche la parte più avvincente della storia. Che si consuma in una rivolta dagli esiti ben poco edificanti. Deotto non lascia spazio alla speranza, sembra sentirsi in dovere di condurre fino in fondo la sua visione, fino a sfiorare la cupezza di Dick e Ballard.
Etico senza essere retorico, condito da un pizzico di nostalgia per i bei tempi andati (i riferimenti alle rock band e ai dischi degli anni Novanta), Un attimo prima è un romanzo maturo e appassionante, alieno ai cliché della narrativa d’azione pure se sorretto da un ritmo che ti aggancia e non ti molla. Una bella prova seconda per uno dei nostri migliori (massì, giovani) scrittori.

“Guardava il cielo che entrava dal parabrezza e si rendeva conto che se una volta sdraiato sul lettino gli avessero chiesto di descriverlo, quel cielo, non avrebbe saputo da dove incominciare. Era un cielo come ne aveva visti a decine, di un celeste carico ma non saturo, terso eppure sferzato qua e là da macchie di cirri e cumulonembi, ogni tanto la forbicina nera di una rondine pizzicava l’azzurro, ruotava e capriolava senza direzione, per poi imboccarne una precisa e sparire. Era un cielo fatto di silenzi e rumori, e di pochissimi colori. Poteva essere un cielo perfetto – un’idea di cielo, insomma – così impeccabile che sarebbe stato impossibile, per non dire inutile, descriverlo.”

Stefano Solventi

DESCRIZIONE

La crisi che ha investito l’Occidente è giunta alle sue estreme conseguenze e il mondo vive un difficile periodo di transizione, in cui il lavoro ha perso la sua centralità. In questo contesto l’ex biologo Edoardo Faschi, ossessionato dalla morte del fratello Alessio avvenuta vent’anni prima, si sottopone a un trattamento psicologico sperimentale ispirato alla scatola specchio di Ramachandran – un dispositivo utilizzato per curare la sindrome dell’arto fantasma nei pazienti mutilati – che promette di aiutarlo a elaborare la perdita. Nel corso della terapia ripercorrerà le vicende della sua famiglia fino ad arrivare agli anni in cui Alessio è diventato un esponente di spicco del Movimento Occupy. Così facendo getta un nuovo sguardo sulla storia tormentata di questo inizio millennio, fornendone un’interpretazione a tratti drammatica, a tratti ironica, sempre convincente. Come altri coetanei, Edoardo rischia di perdersi in una sterile contemplazione del passato, ma la ricomparsa improvvisa del figlio di Alessio, Sealth, di cui aveva perso le tracce, lo costringerà a scuotersi e a compiere una scelta. In nessun modo il destino deve ripetersi. Proiettandosi in avanti di alcuni anni, Fabio Deotto ci racconta un domani sorprendentemente possibile. E ci mostra il nostro presente in tutta la sua bellezza, in tutte le sue contraddizioni, con tutta la sua energia.

Bambini nel tempo – Ian McEwan #IanMcEwan #recensione #childintime

Bambini nel tempo (nel titolo originale ce n’è uno solo, in verità, Child in time) è il terzo romanzo di Ian McEwan, scritto nel 1987, dal quale la BBC ha tratto un film con protagonista Benedict Cumberbatch (sempre sia lodato). E’ un racconto di lutto, di smarrimento, di tempo perduto che, come molti romanzi di McEwan, si articola attorno a un unico evento catalizzatore: il protagonista, Stephen Lewis, è un uomo che ha tutto. E’ un ricco scrittore di libri per bambini, ha successo, una moglie bella e intelligente, e una bambina di tre anni, deliziosa, unica, amatissima. E nel giro di un momento, Stephen non avrà più nulla: la bambina scompare mentre sono a fare la spesa al supermercato, un attimo di distrazione, nulla di più: ma è sufficiente. La figlia è persa, rapita, probabilmente morta. Il tempo passa, la bambina non ritorna, Stephen e la moglie si lasciano, ognuno naufrago nel proprio infinito dolore. L’assenza della figlia è ormai una presenza onnipresente, che tortura all’infinito nel ricordo i poveri genitori, incapaci di uscire dal circolo vizioso di rimorsi, dolore, disperazione e rabbia.

Il libro apre su questa vicenda, l’incubo di ogni adulto che abbia un bambino intorno, e si assesta poi nel racconto di quello che accade ai protagonisti all’incirca due anni dopo; la storia si snoda in un’Inghilterra distopica in cui il governo istituisce una commissione per l’istruzione che regolamenti l’educazione dei bambini, che si incoraggia a essere repressiva e autoritaria, e dove gli accattoni devono avere una licenza ufficiale per legge (il romanzo è stato scritto in epoca post-thatcheriana, e l’effetto del clima severo di quegli anni di ferro si vede), un Paese con un distacco amaro tra chi governa e il popolo, un abisso che a nessuno dei vari politici presenti nella storia pare interessi colmare.

Il tempo, oltre al lutto, è il grande tema di questo libro: il suo valore, il modo in cui si decide viverlo, le strane direzioni che prende quando è passato e diventa futuro, la diversa percezione che ne hanno adulti e bambini. Il tempo, spiega un’amica a Stephen, è elastico, capriccioso, relativo, parallelo: ci sono momenti in cui sembra che acceleri, altri in cui rallenta, o vada del tutto in corto circuito; momenti in cui tu ti stai divertendo e vorresti rimanere in quell’attimo per sempre, mentre altre persone intorno a te vorrebbero solo potersene andare. Un treno che lascia Londra verso la periferia della campagna viaggia dal passato verso il presente, in senso architettonico ma anche metaforico; i genitori di Stephen che hanno vissuto tutta la loro vita in basi aeree Nato, una volta in pensione condensano tutto il loro passato in una serie di souvenirs esposti in un’unica stanza.

Stephen stesso vive stancamente in un presente continuo e infinito, che alterna a visite mentali nel passato; il suo tempo non è mai nel futuro, dove non è presente la figlia, che è uscita dal momento temporale: non è più, per lo meno non nel mondo del padre. Se esiste ancora è altro, in altro luogo, qualcosa di diverso a lui per sempre e d’ora innanzi sconosciuto.

L’altro tema che McEwan esplora è quindi quello della perdita nelle vite umane; rappresentato non solo della figlia, ma anche nella figura del migliore amico del protagonista, che Stephen vede allontanarsi senza riuscire a recuperare, un ex Primo Ministro che alterna il desiderio di successo in politica e nella vita con il fortissimo sogno di tornare bambino, vivere senza responsabilità nella beata sicurezza dell’infanzia, fino a diventare schiavo di questa patologia. Ma naturalmente, il senso di tutto, nella vita, è guardare avanti, non indietro, come Stephen ci confermerà nelle pagine finali del libro.

Libro che ho trovato, onestamente, a tratti un bel po’ noioso. E’ McEwan, quindi scrittura elegante, incredibile capacità di far uscire carattere, umore, pensieri dei protagonisti in una singola sentenza complessa, stile impeccabile. Ma la storia per me non ha decollato per quasi tutta la parte centrale, impantanata ora da un poco di realismo magico con sovrabbondanza di dettagli sensoriali, ora da una serie francamente tediosa di discorsi tenuti dai vari membri della commissione ministeriale per l’istruzione, tutti dimenticabili, ora da panegirici mentali del protagonista, che si perde tra i labirinti della memoria e scie di umori e pieghe dei ricordi portando noi a perderci con lui. Un libro poco scorrevole e con digressioni stancanti, che tuttavia mantiene una magistrale capacità descrittiva e significativa potenza di messaggio e riflessione.

Tra curve temporali e flashback, sesso e pietà, satira e crudeltà, infanzia e mondo adulto, Bambini nel tempo cammina grave e complesso verso un finale un po’ telefonato ma di una certa poesia, e non del tutto consolatorio. E’ vero, si deve guardare sempre avanti, per sopravvivere, e il senso di questa vita, del tempo che abbiamo, non è indietro nei ricordi. Ma il passato, anche se doloroso, è quello che ci ha portati fin qui: rinnegarlo è impossibile, ignorarlo è una finzione. E in fondo “non si può vivere nel tempo presente, perché non esiste… perché noi siamo fatti di tutti i nostri ieri.”

Non un capolavoro, ma tre stelle e mezzo de rigueur.

Lorenza Inquisition