Domani nella battaglia pensa a me – Javier Marías

“È intollerabile che le persone che conosciamo si trasformino in ricordo.”

«Domani nella battaglia pensa a me / e cada la tua spada senza filo. Dispera e muori!» è, nell’originale di Shakespeare, l’anatema lanciato dallo spettro di una madre, Riccardo III, atto V.

Un libro stupendo, doloroso, le prime pagine fanno fisicamente male, l’autore lavora sulla nefasta esperienza del protagonista. In una Madrid cupa, umida, quasi sempre notturna, Víctor Francés il protagonista narratore, di professione sceneggiatore per il cinema e la TV, ha un’avventura erotica che si conclude con la morte improvvisa, imprevedibile della donna, Marta, che in assenza del marito lo aveva invitato a condividere con lei la serata, e che, colta da un malore improvviso, gli muore tra le braccia. Víctor, che all’inizio non sa che cosa fare con il corpo, con il bambino di due anni che dorme nella sua stanza, con il marito assente, si sente l’unico testimone di quella morte e unico depositario delle parole della donna e avvertendone il peso come una responsabilità opprimente, decide di conoscere il marito, la sorella e il padre della donna che aveva avuto con lui la più straordinaria delle intimità: quella della morte.

Per l’autore la vita è fatta soprattutto da tutte quelle scelte e occasioni perse o neanche considerate che sono state soppiantate dall’unica scelta compiuta che ha determinato lo scorrere degli eventi e questo è il tema del libro, le scelte compiute e quelle che avremmo potuto fare conoscendo tempestivamente come cambiava il mondo intorno a noi.

Marias è pazzesco nel descrivere l’intreccio dei fili del destino, nei quali si trova invischiato Victor (il protagonista), dell’animo umano, delle relazioni, il ritrovarsi soli e sperduti negli intricati intrecci dei rapporti. Lunghissimi monologhi, ricordi, spettri del passato e l’incanto di questo nuovo fantasma, la vita, la morte, l’amore, i figli, i tradimenti, i legami parentali, i ruoli, i doppi ruoli, i vincoli. Questo libro è sangue, fango, pioggia, insonnia, tutto è stato scandagliato, esplorato, nelle splendide elucubrazioni dell’autore.
Ogni pagina suscita emozioni e spunti di riflessione, è una lettura impegnativa e profonda, un autore enorme.

“L’inganno e la sua scoperta ci fanno vedere che anche il passato è instabile e malsicuro, che neppure ciò che in esso sembra ormai fermo lo è per una volta e non per sempre, che ciò che è stato è composto anche da ciò che non è stato, e ciò che non è stato può ancora essere.”

Elena Fatichi

“…C’è un verbo inglese, to haunt, c’è un verbo francese, hanter, molto imparentati e piuttosto intraducibili, che denotano ciò che i fantasmi fanno con i luoghi e con le persone che frequentano o spiano o rivisitano; inoltre, secondo il contesto, il primo può significare incantare, nel senso feerico della parola, nel senso di incantamento, l’etimologia è incerta, ma a quel che sembra entrambi provengono da altri verbi dell’anglosassone e del francese antico che significavano dimorare, abitare, sistemarsi permanentemente (i dizionari sono sempre divertenti, come le carte geografiche). Forse il legame poteva limitarsi a questo, a una specie di incantamento o haunting, che a ben vedere non è altro che la condanna del ricordo, del fatto che gli eventi e le persone ritornino e appaiano indefinitamente e non cessino del tutto né passino del tutto né ci abbandonino mai del tutto, e a partire da un certo momento dimorino o abitino nella nostra testa, da svegli o in sogno, si stabiliscano lì in mancanza di luoghi più confortevoli, dibattendosi contro la propria dissoluzione e volendo incarnarsi nell’unica cosa che rimane loro per conservare il vigore e la frequentazione, la ripetizione o il riverbero infinito di ciò che una volta fecero o di ciò che ebbe luogo un giorno: infinito, ma ogni volta più stanco e tenue. Io mi ero trasformato in quel filo.”

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Lincoln nel Bardo – George Saunders #GeorgeSaunders #recensione #LincolnnelBardo

“Vidi, come per la prima volta, la grande bellezza delle cose di questo mondo: le gocce di pioggia stillavano lente al suolo dalle foglie del bosco circostante; le stelle erano basse, biancoblu, accennate; il vento aveva un sentore d’incendio, malerba secca, palta di fiume; il pst pst scoppiettante dei rovi montò con la brezza sempre più forte, mentre lontano oltre il torrente un ronzino da slitta agitava i campanelli che aveva sul collo.”

Lincoln nel Bardo – George Saunders
Pubblicato: Agosto 2017 da Feltrinelli
Genere: Narrativa Collana: I Narratori – Traduzione Cristiana Mennella.

Questo è un libro spettacolare, che richiede un poco di pazienza all’inizio, un desiderio di andare incontro all’inusuale in letteratura, per ricompensare con pagine di raro lirismo. Il prodotto finale, stilisticamente, è un viaggio straniante oltre i propri limiti di lettore, e di pregiudizi letterari, ed è incredibilmente bello. E’ il classico libro che a causa della particolare struttura e linguaggio innovativo, farà molto discutere, e si odierà o amerà visceralmente; e quindi, nel bene e nel male, va letto. Io sento solo di potermi inchinare e sentire di non essere degna di scrivere qualsivoglia commento. Quindi esprimerò qualche lode gaudiosa e poi mi ritiro in silenzio.

Lincoln nel Bardo mi incuriosiva perchè ha vinto il Man Booker Prize, che è il più alto riconoscimento letterario elargito in Gran Bretagna a un libro di lingua inglese, e quest’anno se lo contendeva con Paolino Auster e Mohsin Hamid di Exit West, tanto per dire. E poi mi solleticava perchè ne leggevo ovunque e non capivo il titolo, e direi che spiegare questo può essere un buon punto di partenza: il Bardo è, nella concezione del Buddismo tibetano, uno stato di esistenza sospeso tra la morte e la rinascita, la cui durata varia a seconda del tipo di vita (soprattutto morale) condotta, e dell’età in cui è sopraggiunta la morte.

 Il Lincoln che si trova nel Bardo in questo libro è Willie, il terzo figlio del Presidente Abramo, morto appena undicenne per una grave complicazione di febbre tifoidea. La sera del funerale il padre, riportano gli storici, si recò alla tomba del figlio e passò una tormentosa notte nel mausoleo, vegliando la piccola bara.

Quella terribile notte, e questo fatto, sono la base su cui si sviluppa il libro; Saunders ci fornisce un contesto sia storico che culturale, e diversi punti di vista dei contemporanei sulla vicenda, sulla figura di Lincoln e sul suo comportamento sia come Presidente che come padre, grazie a una serie di citazioni, alcune tratte da reali biografie e testi storici dell’epoca, e altre inventate dall’autore stesso (non c’è modo di verificare quali siano le vere e quali le finte se non impegnandosi in una barbosa ricerca che è in fondo inutile). Grazie a questi interventi entriamo nel vivo della figura di Lincoln in quei giorni del 1862, con la Guerra Civile che cominciava a mietere le prime vittime, e nei suoi sentimenti di lutto, di sensi di colpa, di lotta e sofferenza e risolutezza. I fatti e la finzione si uniscono per rappresentare una complessa figura umana e presidenziale, in un momento cruciale della sua esistenza, sia come padre che come politico.

Willie, morto da poche ore, non è nel Bardo da solo: il cimitero in cui giace è popolato da una numerosa serie di figure che rifiutano il proprio stato di morti, e si aggrappano a qualunque ricordo, fatto o sentimento che possa loro rammentare la bellezza della vita ormai perduta. E’ un presepe di figurine congelate, un coro greco di voci che esprime l’universalità di questo romanzo: Willie è un’anima fra tante, tutte importanti nel tempo che fu loro, tutte una volta vitali e care a qualcuno, con sogni e desideri, tutte dirette verso un destino comune. E ogni spirito, nonostante il suo stato incorporeo, è fortemente umano, perso, solo nel proprio stato nel Bardo, con il quale cerca di convivere: qualcuno con profonda introspezione, altri con humor o oscure verità, alcuni ancora soffermandosi su fatti triviali o ossessioni inutili. Ci sono esponenti di ogni ceto, maschi e femmine, giovani e vecchi, bianchi o neri, personalità e vicende interessanti e peculiari nella morte, come ogni singola anima lo è nella vita.

In questa vasta pianura mentale in cui la coscienza ha cambiato disposizione ma non si è interrotta, alcuni di questi spiriti racconteranno la loro storia, e cercheranno di connettersi, tramite Willie e il padre che si uniscono in un ultimo abbraccio, con chi hanno amato in vita e ormai perduto; altri cercano di aiutare il bambino a lasciare per sempre questo piano di esistenza,poichè è inutile e fuorviante per un’anima indugiare nel rimpianto di una vita ormai finita. Altri vorranno essere vicino al Presidente per aiutarlo a trovare pace, sia per il lutto personale, sia per le morti di tutti i giovani sui fronti della guerra che egli ritiene gravemente sua responsabilità, sia, non ultimo, per la disumanizzazione di tutti gli schiavi uccisi brutalmente, che egli sente pesare sulla sua coscienza di uomo e di politico.

Lincoln nel Bardo è un romanzo corale e intimista, straziante e poetico, ironico e immaginifico; ha personaggi fortemente umani nonostante la loro ovvia condizione di defunti, persi nel rimpianto e nella nostalgia con una rabbia che rompe gli argini oltre il confine tra la vita e la morte, dove la vera fine consiste nella certezza di aver perso delle occasioni.

È un affresco denso di pietà umana sui conflitti politici, su quelli interiori, e sulle debolezze della carne e le piccolezze dell’animo umano; un’opera che dalla perdita privata e personale di un padre si connette a temi universali di lutto e decadenza, di sofferenza umana e speranza di vita oltre la morte. I suoi personaggi vivono in un paesaggio statico del loro passato, e hanno singoli lancinanti momenti in cui ricordano un attimo di pura bellezza delle loro vite terrene, e il nostro comune destino, orribile e così meraviglioso nel mistero del tempo che ci viene dato, si erge in un glorioso inno alla natura dell’amore, della bellezza, della pace che la vita umana contiene, se pure solo a sprazzi.

Ho amato profondamente i momenti di luce nella rimembranza di un attimo di vita passata, il buio di certi ricordi tra i sepolcri, la tristezza infinita della memoria dolce amara di un caro amato che non c’è più: è vero, questo è un romanzo atipico, scritto in modo surreale da un autore che si è sempre cimentato in soli racconti e qui pare voglia mettere in discussione l’idea stessa di svolgimento di un romanzo. Ma è una scrittura profonda, umanissima, una meditazione compassionevole sull’esperienza di vivere in tutti gli elementi comuni a noi tutti, l’amore, la morte, la perdita, il rimpianto, il rimorso, e tutto quello che c’è in mezzo. E la semplice, potente certezza che è nell’altruismo, nell’empatia e nell’amore verso gli altri che troviamo il senso del nostro valore, è questo che ci salva dall’abisso, sia che guardiamo il mondo con occhi da schiavo o da soldato, da ateo o da religioso, da politico o da giovanotto spensierato. Un sentito capolavoro di umanità, che consiglio a chiunque abbia amato e perso e pensi all’infinito con ansia e trepidazione, cioè, a tutti noi.

“Niente di tutto questo era reale; niente era reale.

Tutto era reale, straordinariamente reale, infinitamente caro. Questo e tutte le cose iniziarono dal nulla, erano latenti in un immenso brodo di energia, ma poi abbiamo dato loro un nome, le abbiamo amate e, in questo modo, le abbiamo portate alla luce.

E adesso dobbiamo perderle.”

Lorenza Inquisition

PS. Menzione speciale di disonore alla copertina di Feltrinelli, una delle meno azzeccate del secolo.