Il Minotauro – Benjamin Tammuz #recensione #BenjaminTammuz

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Erri De Luca: un inno al segreto alla potenza della scrittura che sa essere più forte di ogni voce, di ogni presenza. La loro distanza non è separazione, ma un nervo teso tra loro, che il tempo irrobustisce.
Ecco, innanzitutto questo, un inno alla potenza della scrittura, alla potenza delle parole. Anche se non ci si incontra mai, le parole possono creare un legame mentale e fisico che nessun occhio nell’occhio altrui, nessun contatto di pelle possono eguagliare.
Un romanzo che è tutto un incastro di vicende, di rimandi, di allegorie, di simboli, di metafore.
Dove ogni personaggio è inserito in un labirinto infinito, dove questo filo di Arianna si snoda dall’Europa fino ad Israele e fino alla Palestina.
Una spy story? No, non solo. La quarta di copertina inganna, depista, e molto.
E’ prima di tutto una storia d’amore, un uomo che immagina una donna da sempre, la “sente” nei suoi sogni, nella mente, prima che venga al mondo, nella sua memoria, la percepisce quasi fisicamente, sa con certezza che la incontrerà. Un incipit che lo dimostra bene:

“Un tale, che era un agente segreto, parcheggiò in una piazza bagnata dalla pioggia la macchina che aveva preso a nolo, e salì sull’autobus per andare in città…Alla prima fermata, l’autobus che rallentava lo riportò alla realtà e vide due ragazze che si sedevano sui sedili liberi davanti a lui.
La ragazza di sinistra aveva i capelli color bronzo, bronzo scuro che brillava di riflessi d’oro… Chi le ha annodato il nastro con tanta cura, pensò il quarantunenne. Poi attese il momento in cui si sarebbe voltata verso la sua amica, appena… vide i tratti del suo viso, spalancò la bocca in un urlo soffocato in gola. Forse gli sfuggì. I viaggiatori, in ogni modo, non reagirono.”

Dopo centinaia di anni di letteratura, ancora una volta ci troviamo a parlare di amore idealizzato. Come fossimo ancora con Dante, Boccaccio, Leopardi. Di donne-sogno. Con la solita domanda, se un amore basato solo su lettere e parole sia possibile. Se sia vero. O se sia solo un gioco dell’illusione, un gioco per tenerci in vita, per far sì che l’amore sopravviva come Idea, perché ne abbiamo bisogno, che sopravviva, quasi disperatamente.
Abbiamo bisogno di sognare.

L’amore perfetto è quello sognato, non sporcato dalla quotidianità. Il quotidiano ammazza la poesia, il perfetto immaginario. Scatta il paragone con la contemporaneità. Il nostro vivere iperconnesso alla tecnologia, senza nemmeno parlarci, guardarci in faccia.
Qui c’è un uomo che scrive, lo fa in modo talmente struggente, romantico e coinvolgente che Thea, la Lei del Sogno, resta incuriosita e poi totalmente coinvolta.

«Nessuno vede le cose belle che tu vedi in me. Mi abitui a qualcosa che nessuno mi darà mai. Io voglio vederti»

Lei viene presa nella rete. Lei diventa alla fine dipendente da quelle centinaia di lettere scritte in venti anni. Si aggrapperà a quelle parole d’amore. Ne diverrà dipendente tanto da considerare ogni uomo che le capiterà di fronte non all’altezza di quelle parole. Ogni altro uomo, seppure folle d’amore per lei, capirà di partire sconfitto.
“…se lo Sconosciuto si presentasse in carne e ossa, potrei pure sconfiggerlo. Ma una figura fatta di parole e tempo è indistruttibile.”

E’ un romanzo epistolare? Sì. Ricorda subito Grossman o Kafka? Certo che sì (anche se scritto prima del coltello di Grossman).
Ma non si ferma qui.
La narrazione diventa altro, si complica, utilizza mezzi ed espedienti originali.
Diventa il Labirinto.
Queste lettere piene di malinconia, un uomo che si strugge perché sa che questo amore è impossibile, perché non ci siamo con i tempi,

“E ora che ci siamo incontrati, è troppo tardi: c’è stato un errore. Deve esserci stata qualche confusione nelle date di nascita, di passaporti; anche in cielo c’è disordine, come in tutti gli altri uffici. In ogni modo, ormai è tardi e impossibile.”

ma, allo stesso tempo, l’essere atteso e ricambiato rende questo struggimento sopportabile, e lo tiene in vita.
“Nessuno al mondo capirebbe quello che c’è tra noi. ”

E non importa. Conta solo questa empatia.
Ed ecco il Labirinto. Soprattutto un labirinto sentimentale, unito alla molteplicità delle interpretazioni, dei protagonisti, che non sono solo queste due persone.
La tensione corre su un filo narrato da quattro punti di vista diversi, tra un rincorrere e rimbalzare continuo tra passato e presente, tra storie familiari diverse eppure collegate, incroci improbabili ma possibili, da un amore sconfinato per Israele, “i monti, le valli, la polvere, la disperazione, le strade, i sentieri”, e un amore denso di rimpianto e nostalgia per tutti i popoli del Mediterraneo, compresa la Palestina, dove tutti sono allo stesso tempo inseguitori e inseguiti, cattivi e buoni, Minotauro e Arianna.
Amori che si intrecciano, si completano, amori che si bramano e poi si attendono, basta solo attendere e avere la capacità di riconoscere la persona e il destino che abbiamo disegnato con l’immaginazione.
Un romanzo che per me nasconde molto di più di quanto io abbia potuto comprendere. Ne sono sicuro.

Musica: Sonata no.9 “Kreutzer”, di Ludwig Van Beethoven
https://www.youtube.com/watch?v=5YKmb7_y3E8

Carlo Mars

Tumbas. Tombe di poeti e pensatori – Cees Nooteboom

tumbas

Lo dico subito: libro stupendo. Ho appena girato l’ultima pagina e già mi manca.

Cees Nooteboom, scrittore e poeta olandese, ha avuto un’idea che è una meraviglia e un omaggio sterminato insieme.
E’ una Spoon River dei poeti estinti. Un viaggio interminabile che Nooteboom ha compiuto per tutto il globo terrestre, alla ricerca delle tombe di scrittori e poeti del cuore, del suo e anche del nostro, almeno in parte. Lo ha fatto per se stesso, prima che per noi, ma è un grande regalo.

Quindi non tombe comuni, ma tombe davvero speciali. Tombe con cui puoi dialogare, da cui puoi ancora ascoltare, potenti, commoventi, le voci di chi è sepolto lì sotto. Persone uniche. Persone elette. Persone che non abbiamo mai avuto la fortuna di conoscere personalmente, ma con le quali qualcuno di noi sente un legame comunque fortissimo. E Nooteboom in più le ha conosciute, diverse di loro. Quindi i suoi ricordi sono in molti casi fortissimi, e le sue sensazioni acuite, si avverte ammirazione sconfinata, si avverte anche il legame dell’amicizia strappata, ma eternamente viva, unita a un’inestinguibile debito di riconoscenza, letteraria e umana.
E’ un viaggio che costruisce una biblioteca dell’ideale. Che quasi mette in comunicazione tra di loro poeti e scrittori, è un filo rosso, questo viaggio, che unisce, sorprende, regala.
E’ anche un viaggio che è autobiografia, di Nooteboom e anche di sua moglie, è anche autobiografia di coppia, è Simone Sassen, infatti, la fotografa e la sua compagna, ad immortalare le tombe e le lapidi visitate. E’ bello anche per questo particolare, il libro, le immagini delle lapidi aprono il discorso sui poeti, sono come un portale verso le loro voci, è qui, la vera magia: si viaggia alla ricerca dei sepolcri, si pronunciano i nomi che vi sono incisi, e si spalanca il mondo magico delle loro opere. Non è un viaggio verso la morte, è un’apertura alla vita, i loro scritti saltano fuori dalla terra e si dispiegano nell’universo, immortali.
Siamo lì con Nooteboom, mentre cita, mentre si emoziona, mentre si commuove, mentre ironizza con rispetto, siamo lì in raccoglimento profondissimo.
Vediamo le tombe e conosciamo particolari inediti, a volte sorprendenti, siamo di fronte a sepolcri sontuosi ma anche a tombe quasi dimenticate, nascoste, come se qualche poeta fosse stato davvero dimenticato un momento dopo la morte. Ci sono poeti che si mostrano, altri che giocano a nascondersi, più o meno come in vita, si celano dietro piante, fiori, arbusti, erbe. Molti riposano uno accanto all’altro, e magari chissà quanto sparleranno di noi e del nostro mondo attuale.
Ma sono gli epitaffi, a farli rivivere, comunque.
Nooteboom commenta in modo personale ogni foto della sua compagna, appunti di viaggio, ricordi personali, oppure inserisce brani di altri scrittori, o sceglie un brano del defunto, il più adatto a commemorare se stesso, in certi casi. Perchè molti di loro han preparato in vita la loro stessa dipartita.

Non so proprio come spiegarlo, ma mi sono emozionato come se fossi lì con lui, a scostare rami e foglie, per leggere il nome del poeta defunto sulla lapide, mentre magari pioveva a dirotto,e fa un freddo cane, perché “i cimiteri hanno qualcosa a che fare con le previsioni meteorologiche” oppure a Napoli, travolto e infastidito dal frastuono del traffico che oltraggia la tranquillità che avrebbe desiderato Virgilio, sono lì a trasalire di sdegno per gli insulti neri nazisti sulla tomba di Brecht, a scostare l’arbusto che copre il nome di Italo Calvino e a ridargli la luce, a leggere la forza infuriata della firma di Canetti, uno che non avrebbe voluto morire mai, a passeggiare nella via dove è nato Cervantes, dove il tempo sembra essersi fermato, e a sperare che questo Genio possa ricomparire dar voce a quei “disparati pensieri” derivati dal suo “sterile ed incolto ingegno”, a commuovermi sulla lapide di Cortazar, commosso soprattutto dal racconto di Nooteboom sull’ultimo viaggio di Julio con sua moglie Carol, condannata dalla malattia, di nuovo a commuovermi per le sue parole sulla Divina Commedia di Dante: “Ho letto molte volte la Commedia… per quanto mi riguarda, mi ha accompagnato per tanti anni e so che appena l’aprirò, domani, scorgerò cose che non ho visto sino ad ora. So che questo libro andrà oltre la mia veglia e le nostre veglie”. E poi a Napoli, con Leopardi, Napoli che “lo attraeva come la stella attrae il pianeta”, seduto al caffè con lui, che si sentiva a suo agio nell’essere essere anonimo in mezzo alla folla, un gobbo tra la folla sognando di esserne parte. Con Melville, tanto bistrattato e non considerato in vita, in un doloroso contrasto con un presente che lo vede risiedere trionfale in tutte le biblioteche e tutte le librerie del mondo, un bellissimo e terribile contrasto… Siamo con quei duecento uomini a scavare un sentiero in poche ore per seppellire Stevenson sul monte Vaea, e poi con Eliot, Goethe, Holderlin, tutta una fila di emozioni che non sono in grado di mettere su carta. Anche perché ho gli occhi lucidi, da quando ho iniziato a scriverne.

Leggetelo. Leggete la prefazione. Perché è già da lì, che ho capito con chi avevo a che fare, ho capito la magia degli scrittori, ho capito che non moriranno mai. Ho capito il paradosso di Nooteboom, che dice che nella tomba di un poeta c’è tutto e non c’è niente. C’è niente, perché il corpo non esiste più, ma c’è tutto, perché basta leggerne il nome e il lettore parte per un viaggio mentale e sentimentale, tutte le parole lette gli si gettano dentro il cuore, e tutto diventa possibile. Ecco perché tanti hanno visitato quelle tombe e hanno lasciato un fiore, una boccetta di profumo, una lettera. E’ il gioco descritto da Cortazar, due persone che giocano a tennis con una palla immaginaria. E lo spettatore che raccoglie la palla inesistente finita in tribuna e gliela rilancia. Chi non crede in questa magia, non lascia fiori , non lascia una bottiglia di vino sulla tomba di un poeta, non lascia ardenti rossetti sulla lapide di Oscar Wilde.

“L’essenziale resta invisibile. Il segreto si nasconde nelle lettere che nessuno leggerà. Una balena a New York, un cacciatore delle Alpi ad Anversa, l’inferno a Ravenna, una chitarra azzurra ad Hartford, Connecticut, la collina dell’infinito a Napoli: il lettore vede sulla tomba del suo poeta quel che non vede nessun altro”.

Musica: Time, The Alan Parson Project
https://www.youtube.com/watch?v=cZX8u1eCXzo

Carlo Mars