Il pianeta delle scimmie – Pierre Boulle #Pianetadellescimmie

Tra le centottantuno diverse sfide letterarie che mi pongo c’è anche quella di leggere i romanzi da cui hanno tratto i grandi classici di fantascienza e horror hollywoodiani, che mi sono scorpacciata da piccola, per poter fare un po’ di raffronto tra opera letteraria e trasposizione: pensiamo che Il pianeta delle scimmie (Planet of the Apes) è una media franchise composto da nove film, due serie televisive e vari libri, fumetti e videogiochi, ed è nato tutto da questo primo romanzo del 1963.

« Queste scimmie, tutte queste scimmie» diceva la voce con una sfumatura d’inquietudine «da qualche tempo si moltiplicano incessantemente, mentre la loro specie pareva dovesse spegnersi in una certa epoca. Se ciò continua, diventeranno così numerose che noi… Ma non basta. Si fanno arroganti. Sostengono il nostro sguardo. La colpa è nostra, che le abbiamo addomesticate e che abbiamo concesso una certa libertà a quelle di cui ci serviamo come personale di servizio; queste sono le più insolenti. L’altro giorno, per la strada, sono stata urtata da uno scimpanzé. Quando ho alzato la mano, mi ha guardato con un’aria così minacciosa che non ho osato picchiarlo. «Anna, che lavora al laboratorio, mi ha detto che molte cose anche là dentro sono cambiate. Non osa più entrare da sola nelle gabbie. Ha asserito che, la sera, vi si odono come dei bisbigli e perfino dei sogghigni. Un gorilla si fa beffe del padrone imitandone il tic nervoso.»

Il Pianeta delle scimmie è stato scritto da Pierre Boulle, un autore francese piuttosto ignorato in Italia, non so bene perchè; tra le altre cose, vinse nel 1958 il premio Oscar come miglior sceneggiatura non originale per aver adattato il suo romanzo Il ponte sul fiume Kwai per l’omonimo film, e già così ci rendiamo conto che è sicuramente uno scrittore di una certa pesanza, per citare Dante. E lo è, scrive bene, il ritmo è molto buono e la storia originale (per i tempi). Pare che l’idea di contemplare il rapporto tra uomo e scimmia gli sia stata solleticata osservando allo zoo le espressioni “umane” dei primati, e cominciò la stesura del libro immaginando un pastiche tra I viaggi di Gulliver e le teorie di Darwin, che riprende e capovolge, inventando un pianeta, Soror, dove sono le scimmie, e non l’uomo, ad aver raggiunto il maggior grado evolutivo. Un giornalista e uno scienziato terrestri vi si ritrovano, dapprima pellegrini, poi prigionieri, poi ospiti indesiderati: la società delle scimmie è classista e razzista, i gorilla sono pure proprio suprematisti e sovranisti, e gli orangutan, che sono gli scienziati, pomposi, pedanti, privi di originalità e di senso critico, accaniti sostenitori della tradizione, ciechi e sordi a ogni novità, costituiscono il substrato di tutte le accademie. Dotati di grande memoria, imparano come pappagalli moltissime cose dai libri. Poi scrivono loro stessi altri libri nei quali ripetono ciò che hanno letto, e per questo sono tenuti in grande considerazione dagli altri orangutan, loro simili. Dei due umani protagonisti, il solo giornalista avrà la forza morale per resistere e dimostrare alle scimmie di essere dotato di intelletto, e troverà due amici nonchè alleati negli scimpanzè, la terza casta, i pensatori razionali, la forza intellettuale di questa società, che proveranno ad aiutarlo.

… il fatto che noi siamo quadrumani è uno dei fattori più importanti della nostra evoluzione spirituale. Ci è servito anzitutto ad arrampicarci sugli alberi, e intuire così le tre dimensioni dello spazio, mentre l’uomo, inchiodato a terra da un vizio di conformazione fisica, si fossilizzava nella piatta uniformità del suolo. La passione per lo strumento ci è venuta in seguito perché avevamo la possibilità di servircene con destrezza. Seguirono poi le realizzazioni nei vari campi e così, a poco a poco, ci siamo elevati fino alla scienza.» Sulla Terra avevo udito spesso chiamare in causa argomenti esattamente opposti per spiegare la superiorità dell’uomo.

Il Pianeta delle scimmie non è precisamente un libro di fantascienza, e neanche di avventura: le vicende, pur avventurose, sono un pretesto che l’autore usa per fare una serie di riflessioni su scienza e società umana, progresso e raziocinio, e del pregiudizio di come trattiamo gli altri in base a quello che pensiamo del loro sviluppo intellettuale. E questo è interessante.

Il problema è che quando un film (ovviamente parlo del primo, quello con Charlton Heston) diventa cult, così immensamente popolare da assurgere effettivamente a stato di icona pop, niente poi può reggerne il confronto… nemmeno il romanzo da cui è partito tutto. Non è la prima volta che mi succede, avendo come dicevo questo vezzo di leggere i classici di quegli anni, e mi ha portato alla sorprendente consapevolezza che in questo specifico campo, spesso è meglio il film (ne sono pure più sorpresa di voi, non so che dirvi): lo sceneggiatore classico hollywoodiano, vivaddio, sapeva il suo mestiere. Nel caso del Pianeta delle Scimmie, è impossibile eguagliare nell’immaginario l’intenso momento cinematografico del finale post apocalittico con Heston che alza gli occhi e vede… Ebbè, dai, qua siamo all’ABC dei momenti giustamente celebri di cinema, ma non voglio rovinarvi la sorpresa, se non sapete. Ma come, non sapete? MACCOSA! Andate a documentarvi!

Il libro termina con non uno ma due dicasi due colpi di scena, che sicuramente avranno dato l’idea allo sceneggiatore (che era originariamente Rod Serling, quello della Twilight Zone) per l’ideona in pellicola, e ha il classico finale aperto dei libri di genere che hanno poi fatto storia, un po’ spaventoso e un po’ sconcertante e che ti lascia lì con la bocca aperta a far entrare le mosche (per i tempi. Se ne avete letto uno sbirillione e visto altrettanti film, un po’ si sa).

In definitiva, se avete un pomeriggio o una serata da impiegare piacevolmente per un po’ di storia del cinema, per me è una buona lettura.

Chiudo con un aneddoto che mi ha sempre fatto sorridere: Richard Zanuck è stato uno storico produttore di Hollywood, capo della 20th Century Fox nel 1967, anno in cui si decise di dare l’ok al primo film, quello con Heston. La sceneggiatura di Serling girava già da un po’ a Hollywood ma nessuno era intenzionato seriamente a farci un film, troppo radicale l’idea di una società dove gli uomini erano schiavi di una razza di scimmie intelligenti (poi schiavi, nel 1967, allegoria razziale, uuuh, aaah). Lo stesso Zanuck, pur tentato dall’idea di produrre un film su “un mondo capovolto” non si decise fino a che non fu scritturato Heston, e non si fecero delle prove per il trucco scimmiesco ritenute accettabili. Ma non solo; anche a film girato e montato, Zanuck non era sicuro di cosa avesse tra le mani, e decise di fare solo una proiezione di debutto a Phoenix: “Volevo vedere se si poteva superare la prima scena di scimmie che parlavano senza che il pubblico si buttasse a terra dal ridere, e allora avrei saputo che si poteva procedere”. E il pubblico non solo non si mise a ridere, alla fine della prima la gente applaudiva, e rimase nel foyer del teatro per più di un’ora a discutere del film, e Zanuck capì che avevano qualcosina, per le mani. Eh Qualcosina, sì.

Lorenza Inquisition

Moby Dick – Herman Melville #MobyDick #HermanMelville

Giacché tutti gli uomini di tragica grandezza diventano tali per un che di morboso.

Giunta alla bellabella (insomma) età di 48 anni ho letto Moby Dick che, esattamente in tema, stava diventando per me il Leviatano di tutti i libri non letti, dei Classici non ancora affrontati che mi guardano con riprovazione dallo scaffale. Onestamente, non credo che sia possibile dire qualcosa di nuovo su Moby Dick; nemmeno le infinite scimmie del Teorema dei primati instancabili alla macchina da scrivere penso avrebbero mai possibilità, neanche in diecimila anni, di scrivere una sola cosa che non sia stata già detta su questo libro: e così mi limiterò a qualche pensiero sparso, sicuramente non originale, ma sentito, che ancora a un mese dalla lettura mi sorge ogni tanto. Perchè sì, Moby Dick è un libro che rimane dentro, non se ne sfugge; non se ne sfugge nemmeno evitandolo, in realtà, perchè nella cultura occidentale è uno dei testi più citati di sempre.

La ragione per cui l’ho scansato per tutti questi anni era più che altro un pregiudizio: leggendone ovunque e sentendolo menzionare in ogni discussione di letteratura anglo americana, mi ero fatta l’idea che fosse due cose: un mattone innanzitutto, ma soprattutto (e peggio) un mattone incomprensibile. Io ho letto molti classici, e il discorso pesantezza lo trovo relativo, e non mi spaventa, generalmente. E’ ovvio che se affronti un tomo dell’Ottocento di 600 pagine non puoi pensare che sia una passeggiata, e in sostanza devi proprio volerlo leggere. Sono testi che richiedono attenzione, impegno, forse un po’ di sano masochismo; e poi ovviamente c’è il fattore gusto soggettivo, e personalmente leggere un volume esteso e vetusto non mi dispiace, se parto concentrata, e se non è proprio insopportabilmente cattedratico. Ma in ogni caso, penso che la letteratura non dovrebbe essere un’ulteriore via di scampo all’esercizio del pensiero intensivo; mi pare che nella nostra vita ci siano già abbastanza distrazioni e scuse per distoglierci dalla meditazione e della speculazione. A questo servono i classici: a far pensare. E per questo funzionano, anche a secoli dalla pubblicazione: ogni paragrafo è una sfida, meravigliosa, e a volte devastante.

Perciò non mi è pesato leggere Moby Dick, anche se sì, ovviamente, è un mattone. Ma è un testo che fa pensare, che trascina in riflessioni anche spiazzanti nella loro modernità per essere un testo scritto nel 1851, che invita a sottolineare frasi su frasi per tornarci sopra in un secondo momento, e soprattutto, è un libro sorprendentemente diretto e, per certi versi, semplice: il linguaggio non è cervellotico, la filosofia è lineare, le metafore mai particolarmente contorte. Certo non è un libro facile, e non è un romanzo di evasione, anche se contiene pagine di potente avventura, impressionanti per la qualità della scrittura e l’intensità della trama.

Moby Dick è un lavoro complesso che, ancor di più in un’epoca in cui le risposte a tutto si trovano in fretta, in poche righe, in un click, a volte ti fa tribolare nel capire un paragrafo, una frase, un intero capitolo: e spesso le idee che ti vengono leggendo, te le devi guadagnare sudando. E’ impegnativo, nella forma e nel contenuto, la storia a volte secondaria ai temi che vuole sviluppare, eterni, immutabili, profondi: la natura della vita e della morte, il senso dell’identità personale e della religione, l’inevitabile e fatale sfida dell’Uomo al Destino, il rifiuto di qualche uomo di sottomettersi a un’autorià che regna superiore, algida, mai manifesta.

Deviarmi? La via del mio fermo proposito è segnata da rotaie di ferro per correre sulle quali il mio spirito è scanalato. Su precipizi senza fondo, attraverso i cuori infestati delle montagne, sotto i letti dei torrenti, io mi precipito infallibilmente. Nessun ostacolo c’è, nessun gomito su questa mia strada di ferro.

Prima di leggere il romanzo, ho voluto leggere solo una breve recensione di un amico scrittore, Stefano Solventi, e mi sono portata dietro questa riflessione che ho trovato particolarmente corretta: “Dirò che leggendolo per la prima volta a 46 anni, nel 2016, avendone subito fin da bambino la suggestione riflessa nell’immaginario collettivo, ho provato stupore, molto stupore. Perché è un romanzo che per larga parte è meta-romanzo, modernissimo anzi post-moderno, con tutte le sue digressioni storiche, tecniche, anedottiche, non gratuite né accessorie ma consapevoli (consapevoli fino all’ironia) della possibilità di raccontare una vera e propria dimensione culturale sfruttando tutte le armi della letteratura, modulando notazione e narrazione.”

Questo mi ha aiutato alla prima sorpresa e al primo potenziale ostacolo, quando dopo i primi capitoli che partono leggeri, quasi ingannevoli nella loro semplicità di storia che declina un’avventura marinaresca, nei quali ti adagi aspettandoti il piacevole -pur se epico- racconto della pazza impresa di un capitano senza una gamba che insegue una balena bianca, Melville piazza all’improvviso lo sbarramento, buttandoti nel mezzo del mondo della caccia al capodoglio, espandendone accezione e significato all’intera portata dell’esistenza umana.

Moby Dick è stato un viaggio epico, difficile, che ti consuma: qualsiasi cosa ti aspetti aprendolo la prima volta, capirai quasi subito che hai per le mani molto di più di quello che pensavi, forse troppo, di più. Ha passaggi profetici e altri enciclopedici, citazioni bibliche e filosofiche, una storia epica ed evangelica, brutale e cupa, che paradossalmente porta a invocare la fede, anche solo nella propria umanità. E’ uno di quei libri che tracciano il solco tra la sproporzione di quello che abbiamo letto e vissuto fino a queste prime pagine, e ciò che sarà da ora in poi. Pur avendoci faticato sopra quasi a ogni capitolo, ho impiegato tre giorni soli a leggerlo, perchè, semplicemente, non potevo staccarmene e vivevo con fastidio qualsiasi interruzione, famiglia, amanti, telefono, cibo, serie tv (effetto Stephen King, o Game of thrones, per evadere nel pop), e una volta finitolo mi mancava così tanto quel mondo che ho subito comprato due graphic novel, per rimanere ancora un po’ sul Pequod. E la cosa assurda è che pur essendo storie graficamente meravigliose (in particolare quella di Chabouté) e concentrate, inevitabilmente, quasi del tutto sulla mera trama, non mi soddisfavano perchè mi mancava il resto del libro: il testo, le parole, la scrittura del romanzo. Cioè mi mancava il mattone.

Bè, questo è stato Moby Dick, per me; ed è un libro che mi è rimasto, e che rileggerò, magari rivisitandolo solo a pezzi, ripercorrendo qualche pagina al di fuori dell’ordine e del contesto, tornando sulle decine e decine di sottolineature che ho sentito di dover fare. D’altronde, i grandi libri servono a questo: ad andare avanti, una frase alla volta.

Il giro del mondo! In questa frase c’è di che ispirare orgogliosi sensi; ma dove mai conduce tutta questa circumnavigazione? Attraverso pericoli innumerevoli, solamente allo stesso punto dal quale siamo partiti, dove coloro che ci siamo lasciati dietro, al sicuro, sono sempre stati davanti a noi.
Se questo mondo fosse una pianura senza fine, e navigando a est potessimo raggiungere sempre nuove lontananze e scoprire visioni più dolci e strane di tutte le Cicladi o le Isole del Re Salomone, allora sì che il viaggio prometterebbe qualcosa. Ma inseguendo quei misteri che popolano i nostri sogni, o torturandoci a dar la caccia a quello spettro diabolico che prima o poi nuota innanzi a tutti i cuori umani; andando così a caccia intorno a questo globo, queste cose o ci trascinano in sterili labirinti o ci lasciano, sommersi, a mezza strada.

Lorenza Inquisition