Il vizio di smettere – Michele Orti Manara #MicheleOrtiManara #RaccontiEdizioni

Anno edizione:2018
Pagine:170 p., Brossura
È che quando racconti qualcosa, diceva, per certi versi stai già mentendo, e se menti per certi versi è come se non esistessi neanche, e il tuo racconto fosse, che ne so, il sogno di un fantasma. Perfino quando racconti qualcosa di te, come fai a essere sicuro di aver detto la verità, come verifichi che il racconto sia una cronaca fedele di quel che è successo, e non una specie di bugia bianca, o almeno non tanto sporca?

Il vizio di smettere è una raccolta di racconti di Michele Orti Manara, pubblicata nel febbraio 2018 da Racconti Edizioni, casa editrice giovanissima romana (dal 2015) che si é fatta parecchio notare anche al Salone del Libro, esaurendo le copie della raccolta di racconti di Elvis Malaj “Dal tuo terrazzo si vede casa mia”, finalista del Premio Strega 2018 (e che attualmente è in terza ristampa). Non so se vi sono capitati ancora per le mani, ma i libretti di Racconti Edizioni, oltre a proporre autori e racconti interessantissimi ( faresti incetta dell’intero catalogo di 15 titoli), sono godibilissimi anche dal punto di vista estetico, con questi disegni color pastello acquarellati sulla copertina, il formato piccolo e le pagine morbide e fragili. Un’esperienza sensoriale che è meglio facciate il prima possibile, datemi retta.

Data questa premessa, vi parlo un po’ di questi racconti. Alcuni sono più lunghi, tagliando un intero spaccato di vita in modo vivido e delicato, come “Una vita in venti minuti”, in cui un presentatore televisivo, dall’indiscussa reputazione e fama, intervista un ragazzo appeso al cielo da spessi fili organici, che lo demolisce in diretta nazionale con il suo cinismo secco e veridicamente crudo.
O “Sulla colonna”, racconto di un ragazzo che sembra andare male a scuola per sport, e che cerca sè stesso al di fuori dei banchi di scuola, tra una gara spericolata di bici senza freni, una ragazza che ha il vizio di smettere di fumare, un giocatore incallito di biliardo che lo usa come talismano, e quella colonna larga vista in un sogno su cui vorrebbe distendersi, destinato a una solitudine in cui “sono inspiegabilmente molto felice”.
Oppure “Vera”, in cui ci troviamo dentro una scheggia di pianeta ricoperto di verde in cui abita una vecchina smemorata, ritrovata ad urlare aiuto nel cuore della notte dal protagonista mentre fuma affacciato al balcone, e aiutata con delicatezza e tenerezza, in un ascolto di cui non è più capace l’unico figlio, “stanco in ogni fibra e dentro e oltre”.
O “I tacchi sul pavimento”, racconto di un’amicizia pura e fraterna ferita dalla divisione dei destini, un ragazzo in un paese del Sud America a consumarsi le mani nella gestione di una fazenda, e l’altro che cicatrizza il dolore della perdita in una consapevolezza più matura, disorientato e lontano dalle stelle, in un mondo in cui tutti sembrano rincorrere degli obiettivi precisi.
O “Post-it”, racconto di due donne che decidono di avere un figlio con la fecondazione artificiale e che, una volta nata la nuova vita, cercano di proteggerla in modo quasi ossessivo, a costo di perdere il sonno e di spegnere un poco la vita coniugale.
O “Piccole cose con le zampe”, racconto di una relazione complicata in cui al di là di tutte le incomprensioni, l’imbarazzo cocente, i contrasti isterici, le visioni completamente opposte, gli scherzi un po’ crudeli, l’incapacità di essere onesti con sé stessi e la voglia di rifugiarsi nel guscio morbido dell’irresponsabilità, l’unica cosa di reale che rimane è l’ascolto del sottosuolo, di quello che gorgoglia vero e profondo sotto tutta la materia superficiale.
O “Diglielo e basta”, racconto tenero di un padre che si è appena rimesso da un tumore ma è ancora debilitato, attanagliato dalle insidie del ricordo della moglie morta, e di un figlio insicuro, perfezionista, sibillino, sensibile e brillante, una corda tesa di violino pronta a captare ogni espressione, parola, comportamento sospetto, per vibrare di rimorso. E di una fidanzata che lo ama e che gli restituisce una scintilla di fiducia, ricucendo le incomprensioni paterne con un consiglio d’amore.
O “Rantolo”, racconto che curiosamente cito quasi per ultimo ma che apre la raccolta, in cui aleggia nell’aria una nebulosa di rabbia, di maternità incerta e traballante sul filo di rasoio della perdita del controllo.
Ci sono poi racconti più agili, che potete leggere nell’arco di una pausa caffè, come il bellissimo “Un posto vivibile”, in cui Wali Gupta cerca di stemperare le difficoltà di un immigrato in terra straniera nella pulizia specchiata degli appartamenti, finché un osso si spezza, e saranno proprio il sangue, l’incomunicabilità, la terribile solitudine e l’esperienza della morte a macchiare quell’illusione immacolata.
O come il racconto di “Agnese”, che mi ha colpito per la bellezza delle metafore che riescono, con poche frasi, a rendere perfettamente la pesantezza e il naufragio alcolico di una donna di mezz’età, che sente di aver buttato una vita intera nei rimpianti.
Una perla il “Punto di flesso”, che è il punto in cui una curva cambia di concavità. Un po’ come uno studente che -con la nausea, la bocca piena di saliva, il volto staccato dal ghigno nudo del teschio come una maschera di pelle appesa nel vuoto, e il cervello trafitto da un triangolo di luce-, decide di uscire finalmente da quell’aula di un’Università alla quale non appartiene, incamminandosi verso l’ignoto futuro.
Divertentissimo “Tre disillusioni editoriali”, in cui vengono affiancate tre short stories di autori alle prese con il successo delle loro opere, che in tre pagine ci dà un piccolo affresco delle dinamiche editoriali, tra talent scout che finiscono al salumiere, racconti dell’orrore che decollano senza un finale e successi umoristici di un autore che muore riconoscendosi veramente solo nell’intimismo sofferto.
Mancherebbero ancora un cinico e tenerissimo gatto, una paranoide che esaspera le Assicurazioni e il racconto delicato e profondo di un ragazzo che cerca di superare, mettendosi a scrivere, la perdita del fratello maggiore, e così dovrei avervi dato una panoramica completa.

«Sono […] stanco di quel che mi succede, di quel che non mi succede, stanco dell’antico teatro romano in mezzo alla piazza che attraverso tornando a casa, acquattato come un animale che ti fa la posta da centinaia d’anni e che ti osserva con tutti quegli archi, stanco di questa città, e di me, e di tutto»

Per quanto riguarda lo stile di Manara, posso dire che l’ho trovato privo di sbavature. Nulla è fuori posto, l’equilibrio non sembra quello di un esordiente ma di un autore già maturo, e il modo con cui ha reso situazioni e personaggi è stato delicato e profondo allo stesso tempo, non senza l’incursione, mai troppo tagliente, di un po’ di lucido cinismo. Nulla di ridondante, uno stile asciugato, nervoso, ma anche poetico e allusivo (in particolare nei riferimenti alla follia).

Giulia Casini

“Il meglio di Il vizio di smettere sta qui, nel modo in cui Orti Manara spinge i suoi personaggi a decidere se esporsi o meno, se svelare o meno, se chiudere o non chiudere – aprire mai, aprire è troppo difficile. È un circo di gente in bilico o in imbarazzo, criogenizzata mentre stava a un passo da, era lì lì per.”
Nicola H. Cosentino, minima&moralia 

 

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Le particelle elementari – Michel Houellebecq #particelleelementari #recensione

Egli stimava tutt’altro che arbitrario l’uso che i nazisti avevavano fatto del pensiero di Nietzsche: negando la compassione, situandosi al di là della legge morale, instaurando il desiderio e il regno del desiderio, il pensiero di Nietzsche, secondo lui, portava inevitabilmente al nazismo.

Questo libro è stato pubblicato per la prima volta nel 1998. Houellebecq si pone l’ambizioso e magniloquente obiettivo di presentarci, sullo sfondo e a intarsio delle due vite dei due protagonisti maschili, una riflessione potente e ampia, lucida fino al cinismo estremo e all’amarezza disincantata, ma non priva di plaghe di luminosa contemplazione e di brevi squarci di poesia e di pietà, sui decenni che vanno dagli anni ’50 fino alla fine del XX secolo, usando la forma narrativa per guardare all’insieme e al susseguirsi dei fenomeni della storia umana da un punto di vista antropologico, sociologico, storico e soprattutto filosofico. Questo grande occhio corale, che verso la fine scopriremo appartenere alla “nuova specie” (e non vi dico altro), abbraccia con disincanto profondo e circolare le vicende umane di Michel e Bruno, fratellastri nati e abbandonati da due genitori incapaci di amare, entrambi cresciuti con le nonne in punti diversi del mondo e poi ricongiunti durante l’adolescenza. Michel sembra non appartenere a questo pianeta. Nasce e sviluppa tutta la sua vita, fino alla morte avvolta nella bruma misteriosa d’Irlanda, in un gioco di luci che fonde insieme acqua e cielo, immerso completamente nella scienza, aiutato da un portentoso intelletto e spinto dal potente innesco della sete di conoscere, che anima pochissimi soggetti sulla superficie di questo pianeta, e che ne costituisce il segreto – privo di onori e sciorinati fasti- motore di propulsione verso l’unico reale avanzamento, che è quello dell’arricchimento della certezza razionale. Michel rimane incapace per tutta la vita di sentirsi collegato agli altri tramite i sentimenti e le emozioni, da cui si separa, avvolgendo tutto nel nastro isolante di una distanza quasi ovattata, deponendo qualche centimetro di siderale silenzio tra sé e gli uomini. Ed è immerso in questo profondo gelo, oberato dal peso di un’atroce tristezza che lo intesse come la sua peculiare fibra esistenziale, che porta a compimento, con sobria originalità e astrale profondità, il lavoro che condurrà l’umanità ad una nuova evoluzione metafisica. Bruno, invece, viene probabilmente concepito da H. e rappresentato come l’esatto opposto di Michel: segnato da un’infanzia mutilata nel suo potenziale di sviluppo e di felicità dalle umiliazioni atrocemente subite, e supportato anche da una certa base caratteriale, Bruno affoga la sua intera esistenza in un’orgia di sensualità. L’immane risucchio del buco nero che si porta dentro lo spinge a una fame insaziabile di riempitivi, che siano la ricerca ossessiva di una catena di locali per ingozzarsi di cibo fino a scoppiare, o la conduzione della vita dettata dal ritmo a onde incessanti e sfibranti di uno scorticante desiderio sessuale, che lo spinge a una ricerca continuamente delusa e inappagata di sensazioni sempre più forti. Interessanti i momenti in cui i due fratelli si incontrano per dialogare un po’ insieme, sulla fragile onda di quel legame di sangue che unisce gli individui e che li spinge, anche se a sprazzi anche separati da anni, a cercarsi, ed è stato bravissimo H. a rendere nel dialogo le due personalità perfettamente opposte, che si raffrontano senza realmente capirsi: da una parte il sensuale e triste Bruno con la sua visione prettamente umanistica e dall’afflato pessimistico e letterario, inzuppata di sesso e dei tormenti della carne, dall’altra l’incanto etereo, perfettamente sigillato e quasi tautologico del punto di vista precisamente filosofico di Michel, che nel suo distacco dal fango terreno e brulicante di malvagità, crudeltà e passioni, riesce a confezionare delle perle di astrazione pura, risultando tuttavia, alla fine, probabilmente solo l’altra faccia della medaglia di quel nucleo di gelida tristezza che sta all’origine delle vite di entrambi, e che io ho intravisto nella terribile mancanza del calore, del corpo, e dell’amore comprensivo, illimitato e vibrante di sacrificio e di auto-abnegazione, che solo una vera madre può dare.
Confesso che ho trovato i capitoli della storia del Bruno adulto i più difficili da digerire, e questo perché sono tutti – e probabilmente apposta- mirati alla rappresentazione brutale dell’atto sessuale, nelle infinite sfumature del suo meccanicismo ripetitivo e nella continua ricerca di un appagamento che, una volta terminato, si ritrasforma, panicamente, in nuovo incessante desiderio, fino alla disillusione totale dell’uomo quarantenne, che si spegne nella vitalità e nella potenza, volgendo intorno a sé e nel bilancio del suo passato uno sguardo lucido e amaro di cinico disincanto.
Per quanto riguarda un giudizio personale sullo stile dell’autore, mi è piaciuta la magniloquenza e la ricchezza abbondante del lessico ricercato, che si dipana come un tessuto di seta trasformando tutta la complessità dell’umana grandezza e miseria in una elefantiaca impresa affabulatoria e filosofica, anche se devo ammettere che alcuni passaggi sono stati intellettualmente ardui e, permane il sospetto, forse anche un po’ tautologici e confusi, un po’ sull’andante della pretesa del sapere e conoscere tutto che si pesta i piedi da sola. Molto interessante sul piano scientifico l’epilogo, che non posso svelare perché è probabilmente la parte più coinvolgente sul piano mentale dell’intero romanzo, che comprende il disvelo dell’identità della voce narrante e pone interessanti quesiti sulla ventura evoluzione metafisica che H., come proposto già nelle prime pagine del libro, ci lancia a mo’ di lucidissima e tagliente provocazione.
Nel complesso posso dire che è uno dei libri più violenti che io abbia mai letto, aggressivo come solo una razionalità perfettamente affilata, disincantata, lucida, cinica e profondamente penetrante, distillata probabilmente dalla stessa esperienza umana dell’autore, può essere, in quanto per me la vera violenza di cui è capace l’uomo, come sembra anche dimostrare il libro stesso, non risiede nei sentimenti, ma risiede nella mente. E se l’uomo si vuole evolvere, non può più sperare in un’evoluzione mentale; solo in un’evoluzione genetica.

Per l’occidentale contemporaneo, anche quando gode di buona salute, il pensiero della morte costituisce una sorta di rumore di fondo che si insinua nel suo cervello man mano che progetti e desideri vanno sfumando. Con l’andar del tempo, la presenza di tale rumore si fa sempre più invadente; la si può paragonare a un brusio sordo, talvolta accompagnato da uno schianto. In altri tempi, il rumore di fondo era costituito dall’attesa del regno del Signore; oggi è costituito dall’attesa della morte. Così è.

Per quanto riguarda il titolo, mi è venuto in mente che si riferisca alle riflessioni che nel vero protagonista dell’opera, Michel Djerzinski, scaturiscono come conseguenze filosofiche a partire dai principi della meccanica quantistica: un mondo futuro non può più basarsi sull’ontologia, vecchia spoglia di ideologie ormai fruste, ma sugli stati, proprio come accade per le particelle; ne consegue che le uniche entità che contano sono le interazioni, e questo pone il fondamento per una nuova speranza: il futuro dell’umanità risiede nel prezioso ordito dell’Amore.

Questo libro è innanzitutto la storia di un uomo, di un uomo che passò la maggior parte della propria vita in Europa occidentale nella seconda metà del Ventesimo Secolo. Perlopiù solo, egli intrattenne tuttavia rapporti saltuari con gli altri uomini. Visse in un’epoca infelice e travagliata.

Giulia Casini, 7/07/18