È che quando racconti qualcosa, diceva, per certi versi stai già mentendo, e se menti per certi versi è come se non esistessi neanche, e il tuo racconto fosse, che ne so, il sogno di un fantasma. Perfino quando racconti qualcosa di te, come fai a essere sicuro di aver detto la verità, come verifichi che il racconto sia una cronaca fedele di quel che è successo, e non una specie di bugia bianca, o almeno non tanto sporca?
Il vizio di smettere è una raccolta di racconti di Michele Orti Manara, pubblicata nel febbraio 2018 da Racconti Edizioni, casa editrice giovanissima romana (dal 2015) che si é fatta parecchio notare anche al Salone del Libro, esaurendo le copie della raccolta di racconti di Elvis Malaj “Dal tuo terrazzo si vede casa mia”, finalista del Premio Strega 2018 (e che attualmente è in terza ristampa). Non so se vi sono capitati ancora per le mani, ma i libretti di Racconti Edizioni, oltre a proporre autori e racconti interessantissimi ( faresti incetta dell’intero catalogo di 15 titoli), sono godibilissimi anche dal punto di vista estetico, con questi disegni color pastello acquarellati sulla copertina, il formato piccolo e le pagine morbide e fragili. Un’esperienza sensoriale che è meglio facciate il prima possibile, datemi retta.
Data questa premessa, vi parlo un po’ di questi racconti. Alcuni sono più lunghi, tagliando un intero spaccato di vita in modo vivido e delicato, come “Una vita in venti minuti”, in cui un presentatore televisivo, dall’indiscussa reputazione e fama, intervista un ragazzo appeso al cielo da spessi fili organici, che lo demolisce in diretta nazionale con il suo cinismo secco e veridicamente crudo.
O “Sulla colonna”, racconto di un ragazzo che sembra andare male a scuola per sport, e che cerca sè stesso al di fuori dei banchi di scuola, tra una gara spericolata di bici senza freni, una ragazza che ha il vizio di smettere di fumare, un giocatore incallito di biliardo che lo usa come talismano, e quella colonna larga vista in un sogno su cui vorrebbe distendersi, destinato a una solitudine in cui “sono inspiegabilmente molto felice”.
Oppure “Vera”, in cui ci troviamo dentro una scheggia di pianeta ricoperto di verde in cui abita una vecchina smemorata, ritrovata ad urlare aiuto nel cuore della notte dal protagonista mentre fuma affacciato al balcone, e aiutata con delicatezza e tenerezza, in un ascolto di cui non è più capace l’unico figlio, “stanco in ogni fibra e dentro e oltre”.
O “I tacchi sul pavimento”, racconto di un’amicizia pura e fraterna ferita dalla divisione dei destini, un ragazzo in un paese del Sud America a consumarsi le mani nella gestione di una fazenda, e l’altro che cicatrizza il dolore della perdita in una consapevolezza più matura, disorientato e lontano dalle stelle, in un mondo in cui tutti sembrano rincorrere degli obiettivi precisi.
O “Post-it”, racconto di due donne che decidono di avere un figlio con la fecondazione artificiale e che, una volta nata la nuova vita, cercano di proteggerla in modo quasi ossessivo, a costo di perdere il sonno e di spegnere un poco la vita coniugale.
O “Piccole cose con le zampe”, racconto di una relazione complicata in cui al di là di tutte le incomprensioni, l’imbarazzo cocente, i contrasti isterici, le visioni completamente opposte, gli scherzi un po’ crudeli, l’incapacità di essere onesti con sé stessi e la voglia di rifugiarsi nel guscio morbido dell’irresponsabilità, l’unica cosa di reale che rimane è l’ascolto del sottosuolo, di quello che gorgoglia vero e profondo sotto tutta la materia superficiale.
O “Diglielo e basta”, racconto tenero di un padre che si è appena rimesso da un tumore ma è ancora debilitato, attanagliato dalle insidie del ricordo della moglie morta, e di un figlio insicuro, perfezionista, sibillino, sensibile e brillante, una corda tesa di violino pronta a captare ogni espressione, parola, comportamento sospetto, per vibrare di rimorso. E di una fidanzata che lo ama e che gli restituisce una scintilla di fiducia, ricucendo le incomprensioni paterne con un consiglio d’amore.
O “Rantolo”, racconto che curiosamente cito quasi per ultimo ma che apre la raccolta, in cui aleggia nell’aria una nebulosa di rabbia, di maternità incerta e traballante sul filo di rasoio della perdita del controllo.
Ci sono poi racconti più agili, che potete leggere nell’arco di una pausa caffè, come il bellissimo “Un posto vivibile”, in cui Wali Gupta cerca di stemperare le difficoltà di un immigrato in terra straniera nella pulizia specchiata degli appartamenti, finché un osso si spezza, e saranno proprio il sangue, l’incomunicabilità, la terribile solitudine e l’esperienza della morte a macchiare quell’illusione immacolata.
O come il racconto di “Agnese”, che mi ha colpito per la bellezza delle metafore che riescono, con poche frasi, a rendere perfettamente la pesantezza e il naufragio alcolico di una donna di mezz’età, che sente di aver buttato una vita intera nei rimpianti.
Una perla il “Punto di flesso”, che è il punto in cui una curva cambia di concavità. Un po’ come uno studente che -con la nausea, la bocca piena di saliva, il volto staccato dal ghigno nudo del teschio come una maschera di pelle appesa nel vuoto, e il cervello trafitto da un triangolo di luce-, decide di uscire finalmente da quell’aula di un’Università alla quale non appartiene, incamminandosi verso l’ignoto futuro.
Divertentissimo “Tre disillusioni editoriali”, in cui vengono affiancate tre short stories di autori alle prese con il successo delle loro opere, che in tre pagine ci dà un piccolo affresco delle dinamiche editoriali, tra talent scout che finiscono al salumiere, racconti dell’orrore che decollano senza un finale e successi umoristici di un autore che muore riconoscendosi veramente solo nell’intimismo sofferto.
Mancherebbero ancora un cinico e tenerissimo gatto, una paranoide che esaspera le Assicurazioni e il racconto delicato e profondo di un ragazzo che cerca di superare, mettendosi a scrivere, la perdita del fratello maggiore, e così dovrei avervi dato una panoramica completa.
«Sono […] stanco di quel che mi succede, di quel che non mi succede, stanco dell’antico teatro romano in mezzo alla piazza che attraverso tornando a casa, acquattato come un animale che ti fa la posta da centinaia d’anni e che ti osserva con tutti quegli archi, stanco di questa città, e di me, e di tutto»
Per quanto riguarda lo stile di Manara, posso dire che l’ho trovato privo di sbavature. Nulla è fuori posto, l’equilibrio non sembra quello di un esordiente ma di un autore già maturo, e il modo con cui ha reso situazioni e personaggi è stato delicato e profondo allo stesso tempo, non senza l’incursione, mai troppo tagliente, di un po’ di lucido cinismo. Nulla di ridondante, uno stile asciugato, nervoso, ma anche poetico e allusivo (in particolare nei riferimenti alla follia).
Giulia Casini
“Il meglio di Il vizio di smettere sta qui, nel modo in cui Orti Manara spinge i suoi personaggi a decidere se esporsi o meno, se svelare o meno, se chiudere o non chiudere – aprire mai, aprire è troppo difficile. È un circo di gente in bilico o in imbarazzo, criogenizzata mentre stava a un passo da, era lì lì per.”
Nicola H. Cosentino, minima&moralia