Stirpe – Marcello Fois #MarcelloFois

Una stirpe, quella dei Chironi, il cui destino è impastato di amore e invidia, dolore e felicità – proprio come quello di tutte le famiglie”.stirpe

Ancora un romanzo in cui storia personale di una famiglia si interseca alla Storia pubblica. Dalla fine dell’800 fino alla fine della seconda guerra mondiale. La famiglia Chironi, nata dal nulla, da due orfani, Michele Angelo e Mercede, “lui fabbro e lei donna”, e tanto basta. Un amore particolare, due caratteri particolari e diversi, che danno vita alla “stirpe”. Tanta fatica, tanta onestà, per riuscire ad arrivare ad una prosperità economica, ad una saldezza di vita. Ma questa agiatezza viene messa a durissima prova, «la felicità non piace a nessuno che non ce l’abbia». Come se la felicità e l’infelicità fossero sempre su di una bilancia, e quando pende dalla parte positiva devi sempre attenderti il rovescio della sorte. E non sai con chi prendertela. Se con un Dio che non ascolta, o con un cielo che è troppo bello, troppo terso, rispetto alla crudeltà di ciò che accade su questa misera terra, abitata da uomini malvagi e stupidi. Il mestiere di fabbro è l’emblema di un uomo e di tutta la sua famiglia, sempre incastrata tra incudine e martello, sempre costretta a piegarsi, a soggiogarsi come metallo, una volta a indurirsi, l’altra a piegarsi, l’altra ancora a fondersi, per resistere strenuamente ai colpi della vita. Le domande sono tante, perché soprattutto una felicità domestica, una fortuna guadagnata con lavoro onesto, debba subire questa durissima legge del contrappasso, che ci fa capire quanto siamo appesi ad un filo…. “guardare una parte di sé che cresce e si sviluppa era come avere la certezza di non morire mai. Ma, allo stesso tempo, anche avere la certezza che per sopravvivere bisogna rassegnarsi a morire”, “perché non c’è genia, da che mondo è mondo, che sia nata forte e invincibile se nutrita di lacrime”. Un dolore immenso e rassegnato, perché la vita è questa, e tocca adattarsi. I temi della paternità, della maternità, arrivare a dire che i genitori hanno il solo compito di amare i propri figli, qualunque cosa accada, non aspettandosi altro in cambio, anzi mettendo in conto ogni colpo della sorte avversa. E resistere, sempre. Prima non capendone i motivi, poi cedendo, rassegnandosi alla sconfitta, quasi. Ma in fin dei conti mai mollare, perché tutto potrebbe mutare ancora, e trovare infine un senso a tutto.
Stirpe è scritto con una prosa meravigliosa, che ti fa amare la lingua italiana, antica, ricca di metafore, molto raffinata però, con gli intermezzi del dialetto sardo molto ben usato e diluito. Una scrittura che non ti stanca mai. Una precisa descrizione dell’animo umano e anche della Sardegna intera, e della storia.
Mi hanno commosso tanti brani del libro, ma soprattutto il finale. La descrizione della lavorazione del metallo paragonata alla crescita di un figlio, di un essere umano, pagine che copierei e incollerei per intero. E l’incontro finale che apre alla speranza della vita.

carlo mars

I miei piccoli dispiaceri – Miriam Toews #miriamtoews

miriam

I miei piccoli dispiaceri, di Miriam Toews (Marcos Y Marcos, pp. 368)

“Elf mi dice che dentro di sè ha un pianoforte di vetro. Ed è terrorizzata all’idea che possa rompersi. Non può permettersi che si rompa. Mi dice che è schiacciato sotto la parte destra del suo stomaco, che a tratti sente gli spigoli duri premerle contro la pelle, che teme possa trafiggerla, e di morire dissanguata. Ma più di tutto la terrorizza l’idea che si possa rompere dentro di lei. […] Quando sente il rumore delle bottiglie gettate nel camion dei rifiuti, o uno scacciapensieri o perfino un certo tipo di uccelli cantare pensa immediatamente che sia il piano che si sta rompendo. Stamattina ho sentito una bambina ridere, dice, una ragazzina venuta a trovare suo padre, ma non sapevo fosse una risata, ho pensato a un rumore di vetro infranto e mi sono presa la pancia tra le mani pensando oh no, ci siamo.”

Mi sono avvicinato a questo libro perché Marcos Y Marcos mi ha sempre regalato gioie, e perché giro intorno a questa autrice da mesi e mesi, senza però aver avuto la ventura di averla incontrata. L’ho scelto senza sapere quasi nulla della storia. Ed è stato sorprendente. Credevo fosse altro. Ma mi sono sbagliato. Forse è stato il titolo ad ingannarmi, forse anche la copertina. E poi la scrittura. Che è sì leggera, delicata, ma costringe a pensare, e tanto, a ragionare, e tanto. E colpisce, spesso anche duro. Eppure non è il classico modo strappalacrime di raccontare un tema fortissimo e tragico, c’è tantissima ironia, e si ride anche tanto. La vita, che, in qualche modo, prende in giro la morte.
C’è una famiglia unita, unita come poche, una famiglia “stramba”, originale, una famiglia che si ama. Ma una famiglia che contiene due anime, una che vuole vivere e l’altra che vuole morire. Un filo nero lega generazioni. Genitori e figli, suicidi e “resistenti”. Componenti che non resistono alla vita e componenti che oppongono resistenza strenua. Persone che non si fanno mai abbattere dai temporali furiosi, al massimo gettano via l’ombrello inservibile e corrono sorridendo. Ma persone che comunque soffrono, e si tengono per mano, sempre, i resistenti non possono fare altro che lasciarsi attraversare dal dolore, per poi ricominciare la battaglia quotidiana. Ma soprattutto è la storia di tre donne, due figlie e una madre. Due sorelle legatissime. Una incasinata con la vita, col lavoro, con gli uomini, con i figli. Un’altra geniale, nella musica, nel successo, con un marito che la venera. Eppure…eppure Yoli, l’incasinata, fa parte dei resistenti, e Elf invece di coloro che non hanno più voglia di lottare, che ha un pianoforte di vetro dentro si sé. È convinta che la vita sia dominata dalla tristezza, a cui tutti dovrebbero abbandonarsi, lasciarsi vincere, e invece lottano per contrastarla. E che forma assume l’amore, in questo contesto? Come si esplica, di fronte a chi ci chiede di porre fine alla sua vita? Qual è il modo giusto di amare?
Attraverso gli occhi stanchi e a tratti disperati di Yolandi, assistiamo ai ricoveri di Elf, dentro e fuori dai reparti di psichiatria. Tramite la sua ironia comprendiamo l’incomunicabilità tra le due sorelle, ma anche l’amore incondizionato che le lega. E siamo inevitabilmente con Yoli, con la sua sofferenza e la sua incrollabile forza.

“Non avremo forse sostanze
né vere e proprie finestre nelle nostre spelonche,
ma almeno abbiamo la rabbia,
e con quella costruiremo imperi, signori miei.”

Che ci fa capire quanto possa essere dura la vita di chi è al fianco di qualcuno che vuole porre fine alla sua esistenza. E’ di una leggerenza intelligente, ci sono poi tante citazioni letterarie e anche musicali, citazioni colte, direi. E i protagonisti, le donne, sono personaggi direi indimenticabili, perfettamente descritte. E’ un libro che invita alla comprensione, al dialogo, all’ascolto altrui, anche quando riteniamo tutto difficilissimo o anche impossibile.

“Perché ci dicono sempre che se crediamo in lui Dio risponderà alle nostre preghiere? Perché non può essere lui a fare la prima mossa?”

La storia è autobiografica. Ma nessun sentimentalismo. E’ alla fine un inno alla vita. Ma anche un’elegia dei difetti, delle debolezze, perché tutto è vita. Ho riso, ho pianto, mi sono sentito coinvolto in pieno, senza riuscire a staccarmi dalle pagine. Molti obiettano che un libro che parli di questi dolori costringa il lettore a perdere obiettività. Ma sono io, che faccio obiezione all’obiezione. Quando un libro ci piace, non ci ritroviamo, spesso, quello che avremmo voluto dire noi? Quando un libro, invece che di morte, parla di due innamorati, oppure di amicizia, o di qualunque altro argomento, se ci sentiamo coinvolti perdiamo dunque la possibilità di essere giudici imparziali? In ogni caso non mi importa, il libro è bellissimo, è stata una grande emozione.

Carlo Mars