Living in the Land of Ashes – Konstanty Gebert #olocausto #recensione

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Il libro di Konstanty Gebert, “Living in the Land of Ashes”, riporta in prima pagina subito dopo la copertina cartonata la dicitura “Cracovia, 29/01/2009”, luogo e data in cui lo comprai, quando ebbi l’onore e l’onere di accompagnare un gruppo di studenti di 3° media nel viaggio della Memoria ad Auschwitz-Birkenau.

Ricordo vividamente la libreria in cui lo acquistai in quei pochi momenti di libertà a spasso per il centro innevato della cittadina polacca. Cercavo un souvenir da riportare a casa e su cui approfondire quell’esperienza diretta, quelle istantanee di viaggio e quei frammenti di storia con cui sono venuta a contatto in quei pochi ma intensi giorni d’inverno. Il libro è rimasto sugli scaffali della mia libreria per anni e solo in questi giorni ha finalmente potuto godere della mia attenzione.

Gebert, che ha iniziato la sua carriera giornalistica sotto lo pseudonimo di David Warszawski negli anni ’80, è uno scrittore polacco piuttosto noto che ha avuto il merito di dare vita al movimento dei “nuovi ebrei” in Polonia a partire dagli anni ’70 attraverso l’istituzione dell’ufficiosa “Jewish Flying University” e in seguito del Consiglio polacco dei cristiani ed ebrei, negli anni ’90.

Le pagine del suo decimo libro sono una raccolta di saggi e articoli in cui si propone di raccontare e descrivere eventi del recente passato polacco, sia dal privilegiato punto di vista del partecipante che attraverso quello più distaccato del giornalista finanche a quello essenzialmente ebreo, dal quale partire per riflettere sulla propria esperienza, quella di amici e familiari all’interno di un processo che ha investito l’intero paese alla ricerca di un’identità immensamente colpita dall’ombra della Shoah.

Con una prosa scarna e diretta racconta di come l’essere ebrei sia sempre stato celato o considerato un tabù nel suo paese: “it was a guilty secret best kept private”. Sfido chiunque a farsi avanti e rendersi riconoscibile dopo aver vissuto tali atrocità. Gli ebrei sopravvissuti all’olocausto abbandonarono il paese non appena ritrovarono le forze per farlo mentre quei pochi che decisero di rimanere nella loro patria dovettero fare i conti con il successivo antisemitismo del regime comunista e alle misure repressive del ’68 polacco che costrinsero all’emigrazione altri 20000 ebrei nei due anni che seguirono. Nei primi anni ’70, si stima che rimasero nel paese tra i 10000 e i 12000 ebrei, tra cui il nostro giornalista.

“The Jews who stayed in Poland despite 1968 did so because to emigrate was to acknowledge defeat, to recognize that entire lives had been based on illusions.”

Al di là delle difficoltà oggettive dettate dal clima politico e da un passato a dir poco doloroso, lo scrittore fa capire che “for all those involved, Jewishness was first and foremost a psychological problem”, uno stigma di alienazione che doveva essere superato al fine di dare un senso alla loro esperienza e prepararli a gestire i pericoli ad essa legati e perché no, a trasformarsi in qualcosa di positivo.

Colpisce il vibrante ottimismo con cui i sopravvissuti delle generazioni a seguire hanno iniziato a riunirsi, dapprima in segreto nei primi anni ’70 e allo scoperto soltanto dopo la caduta di Solidarnosc, nel 1989, accomunati dallo stesso desiderio di trovare un’appartenenza o più propriamente un essere, insieme per colmare quel “deserto della memoria” che era stato crescere all’indomani del secondo conflitto mondiale. E che si chiedevano se potesse e dovesse esserci una “vita ebrea” in Polonia dopo la Shoah; come dovevano relazionarsi gli attuali ebrei polacchi, figli e nipoti dei sopravvissuti con gli orrori della guerra e la gloriosa storia del loro popolo che l’aveva preceduta; se si sentivano a loro agio, in qualità di esigua minoranza, in un paese prettamente cattolico; come avrebbero interagito l’identità polacca e quella ebrea; quale impatto avevano creato 40 anni di comunismo sul loro destino.

Un approccio diverso con cui ricordare. Lo spaccato storico di un popolo che è dovuto risorgere dalle proprie ceneri ricercando l’identità perduta di chi l’ha volutamente seppellita o di chi ha dovuto farlo, per ovvie ragioni.

“Felek, born in Krakow in 1914, had moved to London just before the outbreak of the war. It was just to have been a temporary stay, but in the end, that’s where he remained. He returned to Poland for a brief trip after the war was over but found nothing to nourish or even validate his memories. […] If the past was useless, he had no use, either, for such idealistic visions of the future. He stayed in London, in an unending present.
It was a present, though, that was haunted by the living company of memories. Felek would go around town on his daily business with his head full of ghosts. Literally – the math teacher he remembered from his high school days had no other existence than that which she owed to Felek. She no longer had a life, but neither did she have a death: no grave, no shiva, no yorzeit, no relatives to remember her. Just a wisp of smoke from the chimneys, and then nothing between her and total oblivion but the few synapses in Felek’s head that kept her memory alive. And she had to fight for these few synapses against all the other ghosts, who also wanted to maintain at least a toehold in the land of memory. And all of them had to fight the owner of the brain, who needed his synapses for other ends as well.
At times Felek must have thought he was going mad. An entire ghost city lived in his brain, demanding attention, memory, love. None of that could possibly have meant anything to the people he had to deal with in his daily life. Nor, it must have seemed, was there even the glimmer of hope that other people – people who would understand – would one day show up. Where from? The past had been murdered. The present was inhabited by aliens. And yet, though he made his life in London, he kept coming back, coming back to Poland. Against his better judgement, against the reality of the present, against the living reality of where his home was now and the ruined reality of where it once had been, and indeed, against any and all reasons for not visiting the dead.”

N.B. A corredare il resoconto, alcuni scatti personali di quei giorni.

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L’antisemitismo -Pierre-André Taguieff

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L’antisemitismo” (Pierre-André Taguieff, Raffaello Cortina, 13 euro) non è esattamente quel che si definisce una strenna, anche se, alla luce degli sconfortanti dati di lettura, è lecito chiedersi che fine faranno i libri regalati a Natale. Eppure questo piccolo saggio andrebbe fatto leggere “con le buone o con le cattive”, come dicevano un tempo ai loro piccini i genitori sanamente privi di eccessive sovrastrutture pedagogiche.

Si tratta di un libro illuminante già a partire dal titolo: l’autore contesta infatti la congruità del termine “antisemitismo” che pure usiamo comunemente, poiché “gli ebrei a causa dei numerosi meticciati, non sono “semiti” nel vecchio senso etnico del termine, e non tutti i “semiti” sono ebrei, poiché anche gli arabi erano considerati “semiti”.

Un’ignoranza sulla quale si potrebbe pure sorridere (sono infinite le cose che non conosciamo…) se non fosse la spia di una più generale rimozione del problema. La giudeofobia – questo è il termine suggerito dall’autore – è una storia infinita di odio e di metamorfosi dell’odio, tante quante nel corso dei secoli sono le accuse rivolte agli ebrei.

A questo punto le persone perbene potrebbero ringraziare della segnalazione e sensatamente andare oltre. Errore. Questo piccolo documentatissimo saggio, testimonia di cose che nel migliore dei casi non sappiamo e nel peggiore non vogliamo sapere. Ma che è tuttavia indispensabile affrontare e conoscere. Ad esempio, che la giudeofobia moderna è un prodotto costruito ad arte in Francia e in Germania nella seconda metà dell’Ottocento da autorevoli esponenti del mondo culturale e scientifico (sic) dell’epoca; che, allora come oggi, le “false notizie” venivano costruite e diffuse con arte sopraffina e finivano con l’essere credute in virtù dell’acquiescente collusione di chi – intellettuali, politici, educatori e religiosi – avrebbero potuto e dovuto opporsi bollando le ”notizie sugli ebrei” per quello che erano: oscene menzogne.

Come è finita si sa: prima si è dato fuoco ai libri, poi all’arte degenerata e alla “fisica ebraica”, per poi finalmente bruciare gli uomini. Quello che invece non si sa o peggio si fa finta di non sapere, è che la giudeofobia è l’elemento qualificante di un quartetto composto da nazionalismo, populismo, razzismo. Dove c’è antisemitismo (mi perdoni Taguieff) prima o poi il populismo fa propri i toni del nazionalismo, e questo immediatamente del razzismo. Ogni volta, in ogni paese, sempre nello stesso modo.

La storia d’Europa dell’Ottocento e del Novecento dal caso Dreyfus sino all’ultimo progrom polacco, è soprattutto la storia di questi moderni cavalieri dell’Apocalisse. Il populismo aizza il nazionalismo che vedeva ieri nell’’internazionalismo e oggi nella globalizzazione la causa di tutti i mali; il nazionalismo scatena il razzismo xenofobo e quest’ultimo accusa “l’internazionale ebraica”, i “giudaico-massoni” di ogni nequizia. Il motore è come sempre l’ignoranza, la sola malattia contagiosa per la quale non esiste vaccino: riconoscersi ignorante è già una forma suprema di conoscenza.

(Mi piace immaginare che anche Babbo Natale finalmente liberato dal secolare copyright della Coca Cola Company, sarebbe lieto di consegnare questo libro)

Giuseppe Ravera